SOCIETÀ

L’algoritmo bipede. Come umani e tecnologia sono evoluti insieme

Dai primi sassi scheggiati fino agli sviluppi più recenti dell’intelligenza artificiale, la storia umana è anche la storia del progresso tecnologico, senza il quale non avremmo conquistato la posizione di predominanza che occupiamo oggi nella natura, né avremmo raggiunto il livello di conoscenza scientifica di cui disponiamo. Ma c’è di più: senza la tecnologia non saremmo neppure diventati ciò che siamo oggi come specie, perché il nostro stesso modo di pensare e di percepire il mondo è stato plasmato dagli strumenti che abbiamo realizzato.

Queste sono alcune delle riflessioni proposte dalla neuroscienziata Martina Ardizzi nel suo ultimo libro, dal titolo L’algoritmo bipede. L’avvincente storia di come mente, corpo e tecnologia evolvono insieme (Egea, 2025). L'opera si è aggiudicata il premio Trieste next - science book of the year 2025.

Con uno stile chiaro e coinvolgente, Ardizzi ricostruisce i motivi per cui ogni strumento tecnologico non è solo un supporto esterno, ma un’estensione del corpo, dei sensi o del pensiero umano. L’autrice parte dalla considerazione che l’evoluzione della nostra specie – come quella di ogni altra – sia legata indissolubilmente alle condizioni dell’ambiente, le cui trasformazioni ci hanno posti costantemente di fronte alla necessità di adattarci per sopravvivere. Il corpo umano, come quello di ogni altro animale, si è trasformato per rispondere alle pressioni ecologiche; nel corso del tempo si è ridotta, ad esempio, la quantità dei peli ed è migliorata la resistenza ad alcune sostanze nocive. Come ricorda Ardizzi, sono le basi della teoria dell’evoluzione di Darwin: “l’ambiente lancia la sfida e la biologia risponde”.

Ma, come ricorda la neuroscienziata, nel caso degli esseri umani l’adattamento biologico non è stato l’unico tipo di risposta efficace alle sfide ecologiche. A colmare quel divario tra le possibilità naturali e le condizioni ambientali è intervenuta la tecnologia, che ha giocato un ruolo decisivo nel nostro successo come specie e senza la quale, probabilmente, non saremmo chi siamo oggi.

Il corpo non è solo limitato ai confini della nostra pelle, si estende agli strumenti tecnologici che adottiamo e partecipa ai processi cognitivi; se avessimo un altro corpo, altri occhi o avessimo costruito tecnologie diverse, penseremmo in modo diverso Martina Ardizzi, "L'algoritmo bipede. L'avvincente storia di come mente, corpo e tecnologia evolvono insieme

Il progresso tecnologico, fin dagli albori della storia umana, ci ha permesso di difenderci, colonizzare nuovi ambienti e persino modificare il mondo naturale per adattarlo alle nostre esigenze. Siamo riusciti, insomma, a estendere le nostre “nicchie ecologiche”, ovvero quegli spazi in cui la specie umana è in grado di sopravvivere e prosperare.

Come spiega l’autrice, uno strumento tecnologico si distingue da un oggetto qualsiasi perché costituisce “un elemento funzionale esterno che viene integrato nel sistema biologico dell’agente modificando la sua esperienza dell’ambiente fino a diventare obbligatorio per generare e sostenere le attività ecologiche e culturali di una specie”. Questo vale tanto per i primi utensili in pietra come lame, falci e coltelli, il cui uso veniva insegnato e tramandato attraverso le generazioni, tanto quanto per gli strumenti per l’indagine scientifica e poi, naturalmente, per le tecnologie digitali.

In altre parole, la tecnologia non solo ci ha permesso di trasformare l’ambiente rendendolo più adatto alla nostra sopravvivenza e, al tempo stesso, di modificare noi stessi per adattarci meglio all’ambiente, ma ha anche ampliato la nostra percezione della realtà circostante.
Ardizzi definisce infatti l’essere umano come un “animale empirico”, che costruisce il suo mondo mentale a partire dall’esperienza. La tecnologia cambia quell’esperienza – sensoriale, motoria, cognitiva – e di conseguenza plasma anche la mente. Il controllo del fuoco, ipotizza l’autrice, è stata la prima innovazione tecnologica che ci ha permesso di estendere le capacità dei nostri sensi, consentendo ai nostri antenati di vincere il buio della notte. La scrittura, poi, ha cambiato il modo di ricordare; i microscopi il modo di vedere; gli utensili la capacità di interagire con la materia.

Purtroppo, però, oggi come nel passato anche le rappresentazioni distorte o false ottenute attraverso gli strumenti tecnologici possono modificare la nostra percezione, ingannandola. L’autrice, a riguardo, cita come esempi le carte geografiche di Mercatore, che per adattare la sfera terrestre a un piano alteravano le proporzioni dei continenti, e i deepfake (foto, video e audio dall’aspetto realistico creati dall’intelligenza artificiale, spesso a scopo di frode o disinformazione) che sfruttano il nostro istinto a credere in ciò che vediamo, inducendoci a scambiare il falso per vero.

Resta il fatto che la storia umana e lo sviluppo tecnologico si trovino da sempre in un rapporto di coevoluzione, in cui l’una influenza l’altro. Ardizzi cita le prime pietre scheggiate usate dall’Homo Habilis e le asce bifacciali dell’Homo Erectus: la realizzazione e l’uso di questi strumenti tecnologici rendevano necessario possedere un cervello sempre più grande e complesso, favorendo la coevoluzione di mente, corpo e strumenti.

Anche l’ampliamento di quelle già citate nicchie ecologiche raggiunto proprio grazie alle innovazioni tecnologiche ha richiesto nuove capacità cognitive e lo sviluppo di specifiche aree cerebrali: nei Neanderthal si sono espansi i lobi frontali e parietali, nei Sapiens quelli temporali. Ciò ha permesso loro di gestire stimoli più complessi, sviluppare pensiero astratto e simbolico, capacità sociali e culturali avanzate. Sono riusciti così a compiere salti tecnologici ulteriori e a realizzare strumenti “sensoriali” (in grado di migliorare la visione, amplificare il suono e produrre musica, ad esempio) e “cerebrali”, (con lo scopo di esternalizzare le funzioni cognitive ed estendere il nostro pensiero e le capacità di conservare le informazioni, come l’arte, il linguaggio e la scrittura) sempre più sofisticati.

La coevoluzione di corpo e progresso tecnologico è stata possibile grazie a una specifica caratteristica del nostro cervello: la plasticità, che gli permette di modificarsi in risposta all’esperienza. Più nel dettaglio, Ardizzi parla di plasticità funzionale, che consiste nella riorganizzazione temporanea di circuiti esistenti per permettere lo svolgimento di determinati compiti (come, ad esempio, padroneggiare gli sci come se fossero una protesi del nostro corpo, finché li indossiamo) e strutturale, che avviene con lo nascita di nuove connessioni o neuroni, che provocano a loro volta cambiamenti a lungo termine (come nel caso di chi lavora come tassista, il cui ippocampo, secondo alcuni studi, è mediamente più sviluppato).

Nell’ultima parte del libro l’autrice ripercorre alcuni dei tentativi più recenti di indagare scientificamente il modo in cui le tecnologie digitali modificano il nostro cervello temporaneamente o a lungo termine. L’uso di internet, negli ultimi trent’anni, sembra aver avuto un impatto sulle capacità attentive e sulla memoria, offrendoci inoltre nuove forme di interazione sociale. Le tecnologie immersive (realtà virtuale, aumentata e mista) ingannano i sensi, creando scenari illusori in cui ci si può muovere e comportare come se fossero reali.

L’intelligenza artificiale (IA), invece, offre la capacità di interagire con un sistema non umano come se avesse capacità cognitive analoghe alle nostre. Una caratteristica peculiare della nostra esperienza con l’IA è che pur conoscendo la sua natura artificiale, l’illusione di parlare con qualcuno capace di discernere, comprendere e seguire intenzioni non svanisce; ciò suggerisce che la mancanza di caratteristiche umane effettive non basta a impedirci di interagire con l’intelligenza artificiale come se fosse veramente un nostro simile.

Come sottolinea Ardizzi, non conosciamo ancora gli effetti a lungo termine dell’IA sul nostro cervello, né è facile prevedere quali saranno i prossimi sviluppi tecnologici potenzialmente in grado di trasformare la nostra mente e la nostra natura futura. È possibile, però, che ripercorrere il nostro lungo passato di coevoluzione con la tecnologia possa fornirci almeno qualche indizio a riguardo.

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