SOCIETÀ

Il pacifismo e i suoi dilemmi

Come aiutare chi è aggredito senza alimentare il circolo della violenza? È possibile evitare il trionfo della prepotenza senza scatenare una corsa al riarmo? Dilemmi antichi che oggi tornano anche in Europa ad acquistare una tragica concretezza, dopo che l’aggressione russa all’Ucraina ha portato morte e devastazioni a livelli che non si vedevano da oltre tre quarti di secolo. Mentre però nelle terre occupate gli scontri continuano ad infuriare nelle società occidentali, per convinzione o stanchezza, sembra salire la domanda di una ‘soluzione diplomatica’ che metta a tacere le armi. Già, ma in che modo, e con quali conseguenze? Lo chiediamo a Marco Mascia, docente di relazioni internazionali all'università di Padova, presso la quale tiene anche un corso su ‘pace e trasformazione nonviolenta dei conflitti’, oltre che convinto pacifista.

Soprattutto però Mascia è presidente del Centro di Ateneo per i Diritti Umani "Antonio Papisca", uno dei punti di riferimento in Italia nella promozione della cultura dei diritti umani e della pace. Il Centro ha da poco ospitato l'assemblea annuale di RUniPace, la rete promossa dalla conferenza dei rettori delle università Italiane (Crui), e dal 20 al 22 ottobre 2023 organizza la conferenza nazionale Trasformiamo il Futuro. Per la pace con la cura, momento di formazione, momento di confronto, aggiornamento e ricerca per dirigenti e docenti di tutte le scuole di ogni ordine e grado.

“Chiariamo innanzitutto – spiega Mascia a Il Bo Live – che ci sono un aggressore e un aggredito e che l’aggressore è la Russia e l’aggredito è l’Ucraina. La Russia sta violando tutte le norme del diritto internazionale e della Carta Onu e sta inoltre commettendo crimini di guerra ai sensi del diritto penale internazionale e dello Statuto di Roma”.

Su dove sia la ragione, dal punto di vista del diritto, non ci sono dunque dubbi?

“La Carta Onu vieta agli stati di minacciare o usare la forza per risolvere le controversie internazionali con l’unica eccezione prevista dall’art. 51 della sua Carta, che dice che in caso di attacco armato ogni Stato ha il diritto naturale di difendersi, individualmente o collettivamente. L'Ucraina ha dunque il sacrosanto diritto di difendersi dall'aggressione russa, e gli Stati che fanno parte dell’Onu sono legittimati ad aiutarla. Dal punto di vista del diritto internazionale, la Russia è dunque uno stato fuorilegge. Detto questo, mi domando: ha senso continuare così? La questione è come andare oltre il giusto, legittimo sentimento di resistenza e di autodifesa del popolo ucraino per riflettere razionalmente sulle conseguenze, sugli effetti che questa scelta provoca in termini di perdite di vite umane e di impoverimento di intere comunità umane in Europa e nel mondo”.

Che fare allora?

“Questo come pacifisti è il punto sul quale cerchiamo di ragionare, senza però riuscire ad aprire un dialogo con tutti coloro che si sono arresi allo schema della guerra continuando a fornire armi senza assumere alcuna seria iniziativa di pace. Anzi la guerra è la loro via per una pace ‘giusta’. Ebbene, ci sono tanti modi per fare la pace, tranne uno: la guerra. La guerra, ha esortato Papa Francesco, ‘non può e non deve più essere considerata come una soluzione dei conflitti’. Per decenni abbiamo consumato risorse immense in armi ed eserciti. E anche oggi si pretende di aumentare ancora la spesa militare. Dicono che è necessario per la nostra sicurezza. Ma il risultato è che viviamo in un mondo sempre più povero e insicuro, pieno di guerre che diventano sempre più estese e letali. Un mondo sull’orlo dell’apocalisse nucleare. Per questo dobbiamo tutti impegnarci a invertire la rotta. Come pacifista sarò sempre a fianco degli ucraini come di qualsiasi altro popolo oppresso, a partire dai palestinesi. Qual è però il senso di dichiarare, come ad esempio hanno fatto e continuano a fare tra gli altri Mario Draghi, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che l’Ucraina deve vincere la guerra? Le guerre oggi non si vincono più. L’assurda pretesa di vincere la guerra con la guerra non è sostenibile nell’era del diritto e dell’organizzazione internazionale per la pace e i diritti umani”.

Così però si torna al dilemma del pacifismo, perché oggi abbandonare l’Ucraina significherebbe consegnarla di fatto al suo aggressore, mentre un cessate il fuoco avrebbe probabilmente la conseguenza di cristallizzare l’occupazione illegittima di una parte consistente del territorio ucraino.

“‘Cessate-il-fuoco’ però non vuol dire arrendersi ma fermare i combattimenti, promuovere la de-escalation militare, dispiegare sul terreno con risoluzione del Consiglio di sicurezza una operazione di pace delle Nazioni Unite con il compito di svolgere un’azione di interposizione, monitorare la cessazione delle ostilità, verificare il ritiro delle truppe russe, assicurare l’accesso umanitario alle popolazioni civili e il volontario e sicuro ritorno delle persone sfollate. Vuol dire fermare il massacro degli ucraini e la distruzione del loro paese. Vuol dire fermare l’escalation militare, porre le premesse per l’avvio di un negoziato reale. Per ottenere il ‘cessate-il-fuoco’ servono autorità, visione, proposte, volontà di collaborare e potere persuasivo. Sarà necessaria la pressione di molti. L’Italia può essere il primo Paese a promuovere apertamente le proposte di pace di Papa Francesco, forte del duplice mandato contenuto nell’articolo 11 della Costituzione, che ripudia la guerr, e nel Diritto internazionale dei diritti umani, che riconosce il diritto alla vita come diritto fondamentale della persona e dei popoli e obbliga gli stati a difendere la vita”.

Per quanto invece riguarda la situazione attuale, quali possibili cause individua?

“A mio avviso le origini di questo conflitto stanno nell'incapacità dell’Unione Europea di prevenirlo e risolverlo pacificamente. Con gli accordi di Minsk del 2014 e del 2015, firmati sotto l’egida di Germania e Francia, le parti in conflitto si impegnavano a garantire l’immediato cessate il fuoco bilaterale, ad agevolare la decentralizzazione del potere riconoscendo il temporaneo autogoverno locale, a consentire all’OSCE il controllo dei confini tra Ucraina e Russia, a riformare la Costituzione dell'Ucraina al fine di consentire un’ampia autonomia alle regioni separatiste. Si sanciva inoltre il pieno controllo ucraino del confine di Stato lungo la zona di conflitto e il ritiro di formazioni armate straniere. I patti non furono però rispettati da nessuna delle due parti. Per implementarli sarebbe stato necessario dispiegare una forza di interposizione delle Nazioni Unite e investire nella costruzione del dialogo e del negoziato le stesse risorse che oggi l’UE e i suoi stati membri spendono in armi. Ma l’Ue scelse di non investire sulla pace e di appoggiare le scelte politiche e militari dell’Amministrazione Biden. L’Unione Europea, screditata e incapace di mantenere la pace sul continente europeo, è una vittima eccellente di questo conflitto. L’Europa ha perso la bussola, ha smarrito la strada che era stata indicata dai padri fondatori delle Comunità europee. Da un progetto di pace nato durante e subito dopo la seconda guerra mondiale, l’UE si è trasformata in un progetto volto ad alimentare la nuova conflittualità est-ovest tra USA e Russia”.

L’altro attore che finora si è rivelato inadeguato sono le Nazioni Unite, nate all'indomani della Seconda guerra mondiale proprio per prevenire i conflitti armati, soprattutto tra le grandi potenze.

“Di fronte a quanto sta accadendo mi vengono naturali alcune domande. Perché gli stati non fanno funzionare le organizzazioni internazionali multilaterali a partire dall’ONU? Perché il principio di sovranità nazionale deve prevalere, nell’era dell’interdipendenza e dei diritti umani internazionalmente riconosciuti, al principio di ‘autorità sopranazionale’ che è all’origine della nascita dell’ONU e dell’UE all’indomani della seconda guerra mondiale? Perché gli Stati continuano a ferire il diritto internazionale? Perché la sicurezza nazionale deve prevalere sulla sicurezza umana; perché gli Stati, anziché investire in armi, non potenziano i sistemi universale e regionali di protezione dei diritti umani e le istituzioni preposte alla costruzione della pace? Oggi, come ieri, continua a prevalere una divisione del lavoro militare fra Stati e ONU a tutto detrimento di quest‘ultima, cioè a detrimento della legalità, della sicurezza e della pace. La Carta Onu prevede espressamente all’art. 43 l’obbligo per gli Stati di mettere a disposizione dell’Organizzazione le forze armate necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionali, per consentire al Consiglio di sicurezza di agire secondo quanto previsto dall’art. 42. È lo schema del sistema di sicurezza collettiva voluto da Roosevelt, ma in quasi 80 anni nessuno dei 193 Stati membri lo ha ancora implementato. Per questo Antonio Papisca diceva che l’Onu in fondo è ancora una minorenne: non ha ancora ricevuto i mezzi in modo da poter svolgere i compiti per i quali è stata creata”.

Che fare quindi?

“Il conferimento di forze armate nazionali all’ONU perché questa ne disponga in via permanente, insieme con l’avvio di un reale processo di riforma e democratizzazione dell’intero sistema delle Nazioni Unite, imprimerebbe una forte accelerazione al processo di transizione dalla sicurezza nazionale alla sicurezza collettiva. Innescherebbe anche un processo di disarmo reale con la messa sotto controllo delle NU sia della produzione sia del commercio delle armi e la costituzione di contingenti militari (adeguatamente addestrati a compiti di polizia internazionale) di rapido impiego, in modo che le NU ne possano disporre tempestivamente il dispiegamento sul campo. È l’art. 43 la vera proposta pacifista piuttosto che la nonviolenza passiva: far funzionare il sistema di sicurezza collettiva. È questo il progetto su cui hanno riflettuto e agito nonviolenti italiani come Norberto Bobbio, Antonio Papisca e poi ancora Tonino Bello, David Maria Turoldo, Ernesto Balducci. Noi abbiamo camminato con loro e continuiamo a seguire il loro esempio. Le guerre costituiscono una criminale sequela che ha le caratteristiche del circolo vizioso: guerra chiama guerra. Perché il cerchio si spezzi occorre che vengano meno gli attributi militari degli stati-nazione; si attuino politiche di disarmo e di sicurezza umana; si affermino strutture democratiche di governo mondiale; si metta in funzione il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite”.

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