SOCIETÀ

Paesaggi sonori. Un silenzio tutto per sé

La ricerca del silenzio assoluto ha interessato in modo programmatico, nella prima parte del Novecento, ricercatori e compositori. Un’indagine che sembra trovare un primo punto di arrivo negli anni Quaranta con la progettazione e costruzione delle prime camere anecoiche. Una camera anecoica è una stanza insonorizzata o, più specificamente, una stanza priva di eco, utilizzata come laboratorio. Le pareti di questi ambienti sono in grado di assorbire ogni riflessione acustica, riproducendo, paradossalmente, l’acustica impossibile di uno spazio aperto infinito, privo di oggetti e barriere. Il cielo in una stanza, insomma, senza alberi e armoniche che vibrano. Uno dei racconti più celebri relativi all'esperienza all’interno di uno di questi ambienti è quello riportato da John Cage. Il compositore americano, trovandosi a visitare la camera anecoica dell’università di Harvard, rimase molto stupito dal fatto che, in quello che era presentato come il luogo più silenzioso del pianeta, fosse possibile percepire chiaramente due suoni, uno acuto e uno grave: erano il suo sistema nervoso e il battito del suo cuore. Ne concluse che il silenzio non esiste, o meglio esiste solo in assenza di vita. 

La stanza, come luogo delimitato e chiuso, diventa un contesto preferenziale per gli esperimenti che riguardano il rapporto tra individuo, suono e spazio. Un luogo in cui cercare un silenzio tutto per sé, o un’armonia benigna. Nel 2017 al Guggenheim Museum di New York è stata inaugurata un’installazione progettata negli anni Settanta dall’artista minimalista Doug Wheeler che riproduce in una stanza semi-anecoica l’esperienza sensoriale del deserto di Sonora, in Arizona. Un paesaggio di elementi conici fonoassorbenti evoca la sensazione provata dall’artista nella sua terra natale.

I am sitting in a room (1969) è invece una delle composizioni più celebri di un altro compositore statunitense, Alvin Lucier, e prevede che il performer sieda, appunto, in una stanza pronunciando queste parole: I am sitting in a room different from the one you are in now. I am recording the sound of my speaking voice and I am going to play it back into the room again and again until the resonant frequencies of the room reinforce themselves so that any semblance of my speech, with perhaps the exception of rhythm, is destroyed. What you will hear, then, are the natural resonant frequencies of the room articulated by speech. I regard this activity not so much as a demonstration of a physical fact, but more as a way to smooth out any irregularities my speech might have.

La voce dell’interprete è registrata su un nastro magnetico, riprodotta subito dopo, registrata nuovamente numerose volte, fino a che non sia più possibile comprendere il significato delle parole pronunciate. Di queste resta solo il suono, per come questo si riflette sulle pareti della stanza. Nelle intenzioni dell’autore non si tratta di un brano utile esclusivamente a esplorare le caratteristiche fisiche del suono, ma ad appianare le differenze. Nel caso specifico, a cancellare, con uno stratagemma, la balbuzie da cui era affetto.

La ricerca di una stanza di silenzio, tutta per sé, direbbe Virginia Woolf, ove ritrovarsi nelle proprie inaudite funzioni vitali, nella evocazione dell’infinito in un deserto sintetico, o nella parola che si fa suono e diventa universale, è stata al centro di un esperimento condotto tra studentesse e studenti della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, dipartimento Formazione e apprendimento, e di Scienze della formazione primaria dell’Università di Padova. Abbiamo chiesto loro quale fosse la camera anecoica metaforica in cui più spesso cercano o trovano il silenzio. Ascoltiamo le loro risposte.

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Un silenzio tutto per sé - Carlotta Sillano e Lorena Rocca

Dall’ascolto di questi luoghi metaforici si riflettono nella nostra mente tantissimi suoni e musiche e di conseguenza anche silenzi. Ma evocare il silenzio, anche se solo attraverso l’ascolto di voci, ha l’effetto di farlo (ri)suonare anche in sua assenza. La dualità tra assenza e presenza produce una doppia stranezza, un duplice significato eternamente racchiuso tra menzione e omissione, tra struttura e oralità, tra ascolto e obbedienza, tra imposizione e rispetto. Il silenzio è una sorta di spazio vuoto in cui l’inizio e la fine convergono costantemente. Come si coglie dalle testimonianze, molti lati di questo lemma nascondono sensazioni tanto piacevoli quanto sgradevoli, pacifiche ma anche violente, rilassanti oppure impositive. Il termine sembra essere, proprio come il rivestimento delle camere anecoiche, “spugnoso”. Questa caratteristica potrebbe derivare dalle sue radici.

Nella lingua latina esistevano due verbi per indicare questo concetto: sileo - come realtà in atto o che si crea - e taceo - assenza di qualcosa che da esso è negata. La distinzione tra i verbi sileo e taceo viene a cadere in epoca classica, a favore del verbo tacere e al concetto di assenza: il significante si connette con qualcosa che non c’è, che non è presente ora, lo è stato nel passato, adesso non si ode più ma, in qualche forma, è ancora lì. Il silenzio è assenza di suono, il tacere assenza di parola. Immaginiamo, però, per un momento di eliminare il silenzio dalla comunicazione. Un flusso continuo cacofonico senza pausa, saturo alla deriva, riempierebbe le nostre orecchie. Il silenzio, che ci permette di articolare le informazioni, è il respiro della parola, la parola iniziale che non è parola. “Il silenzio non è l’assenza di suono, ma l’inizio dell’ascolto”.

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