"Non hai osservato, camminando nella città, come degli edifici che la popolano taluni siano muti, ed altri parlino, mentre altri ancora, che sono più rari, cantano?". Questo domandava l’Eupalino di Paul Valéry a un immaginario Socrate, riferendosi a una “voce” tante volte inudibile, nascosta dietro al dominio dell’immagine visiva.
Interrogarsi sul carattere multisensoriale del mondo che ci circonda, sull’essenza delle voci e dei suoni che lo animano, significa porre un interrogativo profondo, capace di andare incontro a una dimensione vissuta e autentica dei luoghi. Ciò risulta particolarmente significativo per organismi complessi come le città, spesso caratterizzate da logiche e visioni politiche astratte, che puntano a rilanciare l’attrattività dello skyline, perdendo di vista la qualità dello spazio pubblico al suolo, in cui avvengono le relazioni “ad altezza d’uomo”. Il problema del suono rilancia la necessità di una diversa consapevolezza dello spazio urbano e della nostra responsabilità nei suoi confronti.
La situazione attuale ci sta rendendo tutti inconsapevoli complici della crescita di un “brusio di fondo” in cui “suono” è sinonimo di “rumore”. Portandoci a spostare l’attenzione – e questo è l’aspetto più grave – dal mondo collettivo reale alla sfera personale virtuale, in ambiti privati (case, automobili, la nostra stessa persona) dominati da connessioni wireless, earphones, headphones, sistemi di isolamento attivo, speaker portatili, eccetera (almeno, fino a che le batterie rimangono cariche).
“ La situazione attuale ci sta rendendo tutti inconsapevoli complici della crescita di un “brusio di fondo” in cui “suono” è sinonimo di “rumore”
Stiamo assistendo all’affermarsi di un vero e proprio circolo vizioso, in cui la crescita del “rumore” produce una disaffezione e una conseguente mancanza di ascolto da parte del pubblico, rendendo gli individui più permissivi rispetto all’aumento del rumore stesso. Una situazione che implica l’urgenza di tornare a riflettere sulla dimensione relazionale dell’elemento sonoro, sui sistemi di significazione sociale da esso innescati, sulla capacità di costruire abitudini e prassi collettive.
Per individuare qualche elemento a vantaggio di questa prospettiva, è in primo luogo opportuno rilevare l’inadeguatezza di alcuni assunti contemporanei. Il primo riguarda la semplicistica contrapposizione tra “suono naturale” e “suono artificiale”: un luogo comune che tende a mettere in relazione la qualità degli interventi sulla città con la semplice capacità di generare metri quadri di “verde” , in una progressiva equiparazione tra appeal cromatico e qualità dell’abitare. Come se il cinguettio di qualche spaesato uccellino, sovranutrito dalle briciole dei nostri hamburger, potesse realmente cambiare la situazione.
Allo stesso modo, si tratta di andare oltre la sterile alternativa tra “rumore” e “silenzio”, prendendo coscienza del fatto che “il silenzio non esiste” – come affermava John Cage – e che al contrario ogni suono, inserito in un contesto di giuste relazioni, può diventare significativo e affascinante.
Questi due pregiudizi dovrebbero al contrario stimolare alcuni interrogativi per sostenere un approccio positivo: quali significati sono implicati nella nostra costante ricerca di silenzio e naturalità? Quali modelli vengono inconsapevolmente perseguiti, al di là di un’idea di mera evasione dalla frenesia quotidiana?
È proprio a partire dal riconoscimento del carattere artificiale e rumoroso della città che si dovrebbe cominciare a riflettere sulle sue potenzialità sonore, facendo del mascheramento, dell’inganno, dell’illusione percettiva gli strumenti per risvegliare quel rapporto ormai assopito tra gli individui e i loro “sensi minori”. Una prospettiva che dovrebbe essere sostenuta proprio dalla diffusione di strumenti tecnologici “smaterializzati” e integrabili con il costruito, in grado di dialogare in modo sofisticato con il pubblico. Le squallide nenie natalizie trasmesse nelle vie commerciali nel mese di dicembre, in un’ottica di mera incentivazione ai consumi, potrebbero essere trasformate in un punto di inizio per studiare l’interazione tra suono e abitudini sociali, nell’ottica di un migliore orientamento, educazione, coordinamento delle abitudini e dei comportamenti collettivi.
Il vero centro della riflessione è da porre nel progetto: per superare l’idea del sonoro come elemento da considerare a posteriori, da correggere o mitigare con l’installazione di qualche pannello fonoassorbente, ma da pianificare a priori, all’interno di una comprensione delle comunità acustiche e delle diverse esigenze che le caratterizzano. Si tratta di passare dal tradizionale atteggiamento vincolistico negativo, che ha l’obiettivo di ridurre il rumore, a un approccio positivo, che abbia come scopo quello di valorizzare il suono e l’esperienza di ascolto delle persone che lo abitano.
Una prospettiva che dovrebbe godere dell’attenzione di architetti e pianificatori, da un lato, e della classe politica e amministrativa dall’altro, anche nell’ottica di migliorare una Legge ancora inadeguata.
Per quanto minoritari, sono diversi gli esempi che dimostrano come sia possibile immaginare una strada costruttiva. In un importante documento del 2004, intitolato Sounder City. The Mayor’s Ambient Noise Strategy, l’amministrazione comunale londinese di Ken Livingstone traccia una chiarissima linea di intervento, che recepisce le indicazioni della Direttiva europea 2002/49 e rilancia il suono come strumento di costruzione e interpretazione dello spazio collettivo.
A livello progettuale, si potrebbe poi citare l’esperienza di Peter Zumthor o la storica collaborazione tra Le Corbusier e Xenakis: proprio per dimostrare la capacità del suono di “aumentare” l’esperienza dell’architettura, generando spazi attrattivi e favorendo nuovi tipi di fruizione e di scambio tra il pubblico. Sempre in questo senso si possono trovare interventi più “originali” – come quelli del Funnel Wall a Dresda o del MUURmelaar a Leuven – o soluzioni più contestualizzate alla scala urbana – come quella del Sea Organ a Zara o del Jay Pritzker Pavilion a Chicago.
La possibilità di integrare tale visione del progetto con i più recenti strumenti tecnologici traccia delle prospettive ancora più radicali e sperimentali, dove il paesaggio sonoro diventa un elemento per interagire direttamente con i movimenti del pubblico. Interessanti in questo senso le sperimentazioni condotte già dal 2012 da Giardino Sonoro, all’interno di contesti di pregio come la Biennale di Venezia e la Triennale di Milano.
Ciò si arricchisce oggi grazie all’uso pervasivo di smartphone e altri dispositivi digitali per la raccolta e condivisione di dati. Si pensi per esempio a Hush City: una app che ha esteso il concetto di soundmap, facendone un vero e proprio strumento di progetto, finalizzato all’individuazione delle “aree di quiete” previste dalla normativa europea.
Un’altra area di sperimentazione interessa il mondo del sound design, dove, sull’onda delle pionieristiche esplorazioni di Max Neuhaus nella metropolitana di New York, sono state messe a fuoco negli anni numerose soluzioni in grado di interfacciarsi con le forme dell’abitare urbano. Il lavoro di Yuri Suzuki presso lo studio Pentagram rappresenta un chiaro esempio.
Uno scenario articolato, dunque, che da un lato dimostra la crescita degli strumenti e delle potenzialità legate al tema, dall’altro continua a rimarcare il limite del nostro paradigma culturale, ancora dominato dal visivo come unico riferimento per la comprensione dello spazio urbano. Si tratta di rimarcare con insistenza la domanda, nella prospettiva di costruire città più accoglienti, consapevoli e più rispettose dei nostri modi di vivere.
Per approfondire
Città di suono. Per un incontro tra architettura e paesaggio sonoro di Martino Mocchi (LetteraVentidue)