SCIENZA E RICERCA

La pandemia: un colossale esperimento di comunicazione della scienza

A inizio dicembre dell’anno scorso è uscito il 55° rapporto Censis sulla società italiana e hanno fatto notevole scalpore mediatico alcuni dati che coglierebbero l’irrazionalità della società italiana. In particolare viene riportato che circa il 6% degli italiani sarebbe convinto che la Terra sia piatta.

Anche l’Annuario scienza tecnologia e società 2021 di Observa, riguardo al terrapiattismo, riporta valori simili, e anzi leggermente superiori (7,4%), in un paragrafo dedicato all’alfabetismo scientifico degli italiani.

Eppure, i dati riportati dal rapporto su scienza e tecnologia dell’EuroBarometro pubblicati a settembre dicono che l’interesse nei confronti della scienza da parte della cittadinanza, europea ma anche italiana, tendenzialmente è sempre cresciuto negli ultimi anni.

Se dunque le percentuali sul terrapiattismo siano un sintomo preoccupante di una possibile deriva irrazionale della società lo abbiamo chiesto a Massimiano Bucchi, sociologo della scienza e direttore del Master internazionale in comunicazione della scienza e dell’innovazione SCICOMM all’università di Trento.

“Il dato sulla Terra Piatta casomai è un indicatore di ignoranza, cioè di analfabetismo scientifico” commenta Bucchi. “Detto così fa un certo effetto, ma va letto nel contesto di un indicatore, quello dell’alfabetismo scientifico, che è più complesso, che viene costruito con una serie di domande e che nel tempo ci ha mostrato due cose: che il livello di alfabetismo scientifico degli italiani è in linea se non leggermente superiore alla media europea e che è sempre leggermente cresciuto da più di 10 anni. Inoltre la fiducia negli scienziati e nella scienza è elevata. Solo in Italia, nel contesto europeo, ci sono programmi di scienza in tv in prima serata che fanno tra i 2 e i 3 milioni di spettatori (una volta ne facevano anche di più). I festival della scienza italiani, a cominciare da quello di Genova, hanno avuto prima della pandemia numeri straordinari”.

Spesso ci si arrovella ad elaborare la più efficace strategia di comunicazione del dato scientifico per vincere la presunta ritrosia del pubblico nei confronti di contenuti complessi, ma come fa notare Bucchi, “il miglior predittore di alfabetismo scientifico o interesse per la scienza è il livello di istruzione generale. La scuola e l’istruzione sono la strada maestra, e il lento miglioramento dei livelli di alfabetismo scientifico visto nelle linee di tendenza degli ultimi anni è dovuto al miglioramento dei livelli di istruzione: su questa si dovrebbe puntare e insistere”.

I dati sul terrapiattismo non devono quindi preoccupare più di tanto se inseriti in un contesto più ampio. “Ci sono segnali da raccogliere nei dati ma purtroppo non sono quelli di cui spesso si parla. È invece preoccupante che il 33% degli italiani pensi che gli antibiotici servano a combattere oltre ai batteri anche i virus, perché poi magari se li fanno prescrivere” nota Bucchi in riferimento alla stessa indagine Observa sull’alfabetismo scientifico; d’altronde la resistenza antibiotica potrebbe essere una delle prossime grandi emergenze che dovremo affrontare.

Dal mito dell’irrazionalità alla comunicazione in pandemia

Secondo Bucchi, quella del cittadino italiano analfabeta, non interessato alla scienza o addirittura irrazionale sarebbe quindi più che altro una mitologia, un’ideologia, una narrazione falsa che però ha un qual certo successo e che se si guarda a come è stata condotta la comunicazione durante la pandemia diventa addirittura un alibi. “Se si parte dall’idea pregiudiziale e infondata che i cittadini non hanno voglia di capire i contenuti si è esonerati dallo spiegarli”.

Alcune campagne comunicative pro vaccinazione ne sono state un chiaro esempio secondo Bucchi: “Perché vaccinarsi? Non perché i vaccini sono sicuri, perché funzionano in un certo modo o perché i benefici superano i rischi, ma perché così possiamo abbracciare la nonna con una lacrimuccia. A questo proposito io faccio vedere ai miei studenti un video di 2 minuti che c’è sul sito della FDA statunitense, un cartone animato che spiega cosa significa autorizzare un vaccino in situazioni di emergenza. Non è vero che le cose tecniche non si possono spiegare ai non esperti, bisogna essere capaci di farlo. Piero Angela e SuperQuark hanno dimostrato che le persone sono disposte a seguire e a capire anche contenuti complessi, se uno li sa spiegare”.

Video della FDA statunitense in cui viene illustrato il processo di autorizzazione all’uso emergenziale di un vaccino

Il più grande esperimento di comunicazione della scienza della storia

Il 10 febbraio verrà pubblicata la nuova edizione 2022 dell’Annuario di scienza tecnologia e società di Observa. “Anche i nuovi dati mostrano che c’è stata una distonia, da parte del pubblico, tra la disponibilità alla ricerca di un’informazione e il fatto che non la si trova nella modalità in cui ci si aspettava. Da noi, con alcune eccezioni e alcuni miglioramenti (ma solo recenti) da parte del Comitato tecnico scientifico, fin da subito i media hanno attinto ampiamente agli esperti che parlavano a titolo personale” commenta Bucchi. “È comprensibile che il singolo esperto non fosse preparato a gestire una responsabilità comunicativa inedita: si è trattato del più colossale esperimento di comunicazione della scienza nella storia di questo pianeta. I singoli esperti non erano preparati a tener conto delle aspettative del pubblico cui si rivolgevano e soprattutto a questa nuova responsabilità comunicativa e alle sue conseguenze: è diverso parlare a un convegno scientifico rispetto a farlo in prima serata o sui social”.

“Più sorprendente e più grave è stato che le istituzioni, che dovrebbero essere preparate a queste evenienze, non si siano dotate delle competenze necessarie. Come sappiamo nel Comitato Tecnico Scientifico non ci sono competenze specifiche di comunicazione, sebbene tutti continuino a ripetere che bisogna comunicare bene e meglio con i cittadini. Penso soprattutto alla prima fase della pandemia in cui la comunicazione si riduceva a una lugubre conta dei morti giornalieri, la situazione era drammatica ma non si riusciva a parlare di quanto di positivo si stava facendo e che poi è arrivato, con i vaccini e con una migliore comprensione della malattia. Si sarebbe potuto scegliere come portavoce delle persone che facessero una sintesi più efficace, magari lavorando anche meglio sui social. Più recentemente si vede qualche segnale, qualche infografica più chiara da parte delle istituzioni sanitarie. Se si vuole trarre una lezione è che bisogna prendere sul serio la responsabilità comunicativa. Non basta essere esperti di virologia o immunologia per poter parlare direttamente al pubblico, anzi, oggi bisognerebbe parlare di pubblici, audience al plurale, sempre più articolate e differenziate. Anche qui ci voleva un’accortezza che è spesso mancata”.

I social, i talk show e i novax

Un altro punto dolente di come è stata gestita la comunicazione in tempi di pandemia riguarda secondo Bucchi la superficialità con cui si è trattato l’universo dei cosiddetti novax. “L’etichetta novax è stata usata in modo pregiudiziale anche dagli esperti che dovrebbero essere le figure più lontane dal pregiudizio. Con grande approssimazione alcuni commentatori hanno scritto che i novax erano il 20% della popolazione. In realtà i novax veri e propri, contrari a tutte le vaccinazioni, sono tra il 2% e 3%”. Le persone con forti convincimenti pregressi contrari alle vaccinazioni sono molto difficili da persuadere. “Bisognava invece parlare a quella zona grigia che erano il 10%-11%, e che adesso si è ulteriormente ridotta, che erano persone con preoccupazioni, magari legate al proprio stato di salute, che non andavano liquidate come irrazionali”.

Prima dell’arrivo dei primi vaccini, a ottobre 2020, l’Annuario 2021 di Observa riportava che solo il 36% degli italiani era disposto a immunizzarsi appena il vaccino sarebbe stato disponibile, mentre il 20% dichiarava che non si sarebbe voluto vaccinare. “Quelli erano dati preliminari quando il vaccino non era ancora disponibile. Man mano che la campagna vaccinale ha preso piede e che le persone vedevano che le cose andavano per il verso giusto, il dato sulle intenzioni diceva già a maggio che l’85% degli italiani si sarebbe vaccinato. Oggi abbiamo una percentuale di vaccinati anche più alta, su cui naturalmente possono aver influito anche le decisioni relative al Green Pass”.

Secondo Bucchi, i social non hanno contribuito in maniera significativa al disordine informativo. “Da quando c’è la pandemia viene rilevato che i social e le fake news pesano poco in situazioni come queste, parliamo del 5%-6% delle persone che basano le proprie decisioni su quello che leggono sui social. Per lo più leggono cose che credono siano curiose o sorprendenti, ma che solo in piccolissima parte influiscono sulle decisioni vere e proprie. Parliamo quindi di una minoranza, per quanto rumorosa e vocale”.

Al contrario, nota Bucchi, specialmente nel corso del primo anno di pandemia, è stato osservato che le fonti a cui gli italiani hanno dato più fiducia sono stati i canali istituzionali e il medico di base. Specialmente questi ultimi però, “per una serie di motivi organizzativi hanno avuto e hanno una capacità comunicativa in termini di ampiezza e qualità molto limitata. Quello che invece le istituzioni avrebbero potuto fare è mettere a disposizione in primo luogo degli Operatori Sanitari strumenti comunicativi semplici, domande e risposte frequenti di cui i cittadini hanno bisogno”.

Per quanto riguarda la televisione, Bucchi assegna alla tv pubblica una buona fetta di responsabilità dell’infelice gestione comunicativa, “perché quella commerciale alla fine ha un altro obiettivo. La tv pubblica poteva fare di meglio, a partire dagli spot. La sovraesposizione degli esperti del resto è stato un fenomeno di carattere internazionale. Un conto è lo scienziato che parla a titolo personale e ha tutto il diritto di farlo, altra cosa è chi riveste un ruolo istituzionale all’interno di un comitato o di un’istituzione. In alcuni Paesi, penso a Anthony Fauci negli Stati Uniti, il focus è rimasto più sugli scienziati che parlavano a nome dell’istituzione e questo ha contenuto di più la polifonia di voci”.

“Un altro dato che abbiamo segnalato con la collega Barbara Saracino su Nature Italy è che questa polifonia di esperti è stata percepita sempre di più dai cittadini come una cacofonia. Anche qui le istituzioni e le associazioni scientifiche non hanno saputo trovare una coesione comunicativa, anche se è inevitabile che tra esperti ci sia dibattito. Tuttavia, il format del talk show che si è affermato non ha dato un contributo informativo reale, per usare un eufemismo, pur nella buona fede dei singoli esperti che probabilmente un contributo volevano o pensavano di darlo”. L’Annuario 2021 rileva infatti (con dati di aprile 2020 confrontati con dati di ottobre 2020) che la fiducia iniziale che i cittadini assegnavano agli esperti è stata gradualmente dilapidata nel corso del primo anno di pandemia in cui il fenomeno dell’infodemia è stato particolarmente rilevante.

“Più volte con i colleghi ci siamo confrontati sulla natura della nuova visibilità degli scienziati, che rappresenta anche un’opportunità. Ora vedo una grande richiesta da parte delle istituzioni di ricerca più avvedute di inserire temi di rapporto tra scienza e società e comunicazione della scienza come elemento base della formazione di nuove generazioni di ricercatori. Io sono moderatamente ottimista che uno degli effetti positivi di questa drammatica stagione sia la consapevolezza che gli scienziati e le scienziate del futuro non potranno prescindere dall’avere un minimo di consapevolezza di queste dinamiche e della responsabilità che comporta contribuire alla comunicazione pubblica”.

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