SCIENZA E RICERCA

Paper, un podcast che spiega come la scienza diventa scienza

Come fa la scienza a diventare scienza? "Succede quando la ricerca viene pubblicata su una rivista scientifica soggetta alla peer review" risponderà chi è del settore. La risposta è corretta, e va benissimo se sei al bar a spiegare a un complottista perché gli studi sulle scie chimiche del suo vicino di casa non hanno valore scientifico. È anche vero che quando parliamo di pubblicazioni scientifiche si apre un mondo, tra polemiche, giochi di potere che vedono come attori contrapposti istituzioni ed editori ma anche ricercatori che, pur tuonando contro un sistema che va a intaccare i loro spesso risicati fondi di ricerca, finiscono spesso per pubblicare sulle riviste più costose (perché sì, può succedere che gli autori debbano pagare per essere pubblicati). A questo mondo così sfaccettato Federica Sgorbissa ha dedicato ben otto puntate di un podcast: si chiama Paper e lo si può ascoltare su Spotify e su altre piattaforme ed è stato realizzato per Sissa Medialab e in media partnership con Le Scienze.

Paper prende il nome proprio dai paper, gli articoli scientifici che contribuiscono a mandare avanti la ricerca, e Sgorbissa sviscera l'intero processo che porta alla pubblicazione, ma anche tutte le criticità di un sistema migliorabile, anche se negli ultimi anni qualcosa è stato fatto. Per rendere conto di tutti i punti di vista, la giornalista ha scelto ospiti di rilievo per affiancarla nel suo racconto, come per esempio Giorgio Parisi, premio Nobel per la fisica, Daniela Ovadia, che ha spiegato a sua volta certi meccanismi delle pubblicazioni scientifiche nel libro Scienza senza maiuscola scritto con Fabio Turone, e Mario Biagioli, professore di storia della scienza alla Harvard University.
Non seguiamo qui l'ordine delle puntate, che vi consigliamo di ascoltare integralmente, ma mettiamo alla luce alcuni punti affrontati dal podcast per cercare nel nostro piccolo di amplificare una serie di informazioni che secondo Sgorbissa sfuggono anche ad alcune persone che del mondo della ricerca fanno parte. Paper, infatti, è comprensibili per l'ascoltatore medio, che viene aiutato da esempi che chiamano in gioco contadini che vendono mele o derivati del grano, ma potrebbe riservare delle sorprese anche a chi pensa di sapere già tutto sull'argomento.

Ma partiamo dal principio: un gruppo conclude una ricerca, e deve restituire i risultati ai colleghi e alla collettività. Per essere validato dalla comunità scientifica, il paper viene inviato a una rivista (e vedremo che la scelta di essa è un nodo importante), che la sottoporrà alla revisione da parte di colleghi che lavorano nello stesso ambito: è la cosiddetta revisione tra pari, la peer review. Il revisore è anonimo, e comunica con gli autori tramite una piattaforma o con l'intermediazione dello staff editoriale, perché spesso richiede piccoli cambiamenti prima di approvare la ricerca per la pubblicazione e perché, anche in caso di rifiuto, vengono comunicate le motivazioni. Ed ecco un primo problema: la peer review ha un certo grado di soggettività. In linea di massima c'è abbastanza accordo sui lavori fatti molto bene e sui lavori fatti molto male, ma poi c'è una zona grigia popolata di articoli rifiutati da alcuni revisori e accettati da altri. E pazienza se si trattasse solo di questo: il problema più grave è che le ricerche più innovative rischiano di essere rifiutate proprio per il livello di novità, che a volte non viene compreso dai revisori più conservativi. Emblematico è il caso di Giorgio Parisi, che lo racconta nella seconda puntata di Paper, che si vede rifiutare un articolo da una rivista. Per carità, può capitare anche ai migliori, peccato (per il revisore) che quell'articolo era il primo di una serie in cui Parisi ha posto le basi della teoria che lo ha portato a vincere il premio Nobel.

Torniamo alla scelta della rivista scientifica a cui mandare il lavoro. Un tempo era tutto piuttosto semplice: si inviava il paper alle riviste più prestigiose e, una volta pubblicato, lo potevano leggere soltanto gli abbonati a quella rivista. Il termine "abbonamento" non deve trarre in inganno: non parliamo di cifre paragonabili a quelle dei giornali che molti di noi ricevono a casa propria a cadenza regolare. La maggior parte degli abbonamenti avevano un costo così alto che pochissimi, a livello individuale, potevano permettersi di pagarlo, e così venivano sottoscritti solo da biblioteche ed enti di ricerca, che li rendevano accessibili agli interessati. La conseguenza era che moltissime persone al mondo erano escluse dall'accesso ai risultati, mentre la scienza dovrebbe essere, almeno in teoria, accessibile a tutti. Ed ecco che nasce l'open access, che prevede che chiunque possa visualizzare un articolo scientifico, anche solo tramite un semplice link come quelli che si possono trovare nei pezzi del nostro giornale. Bellissimo e sicuramente democratico, no? Peccato che per coordinare la peer review, per tenere aggiornate le piattaforme, e per molte altre operazioni servano risorse, umane ed economiche, quindi una rivista scientifica deve essere finanziata. Come si fa se non è previsto un abbonamento? A quel punto la spesa ricade proprio su chi ha fatto la ricerca, che deve pagare la sua pubblicazione (e non parliamo di piccoli importi: un articolo su Nature arriva a 11.000 dollari, per esempio): sono le APC (Article Processing Charge) delle tasse addebitate agli autori per pubblicazione e diffusione delle ricerche. Facciamo una piccola precisazione: spesso nel mondo dell'editoria chi pubblica a pagamento ha prima tentato con altri editori più grandi, e quindi, a torto o a ragione, il valore della sua opera viene considerato minore di quelle pubblicate gratuitamente. Nel mondo delle riviste scientifiche, invece, accade il contrario.

Perché le alternative per pubblicare in open access senza intaccare i fondi di ricerca o le finanze personali ci sono, come viene spiegato nella terza puntata del podcast.

Il problema è che per la legge della domanda e dell'offerta le riviste più prestigiose, su cui tutti tentano di pubblicare, sono quelle che costano di più, e la maggior parte di esse sono ibride, il che vuol dire che hanno una parte open access dietro pagamento dell'APC e un'altra in abbonamento, con il risultato che gli enti pagano due volte: per la pubblicazione in open access e per poter leggere anche gli altri articoli.
Ma cosa significa "rivista prestigiosa"? In estrema sintesi, sono quelle che hanno un impact factor più alto, cioè un maggior numero di citazioni degli articoli pubblicati. C'è da dire, comunque, che in realtà un ruolo cruciale in questo senso potrebbero averlo anche i giornali non scientifici, come ha dimostrato il lavoro di David Philips e altri pubblicato sul The New England Journal of Medicine (purtroppo non in open access).

Ma perché gli studiosi vogliono a tutti i costi pubblicare su queste costosissime riviste? Per la gloria, certo, ma in minima parte. Il problema è che vengono valutati anche sulla base di questo: ogni ricercatore ha il suo H-index che aumenta all'aumentare delle citazioni dei suoi lavori. E, va da sé, se pubblichi su una rivista con un impact factor più alto hai molte più probabilità di vedere un tuo lavoro citato (il podcast analizza anche il ruolo non sempre trasparente degli uffici stampa, che possono pilotare il numero di citazioni). Ovviamente i docenti arrivati a fine carriera possono anche privilegiare testate che non lucrano eccessivamente su abbonamenti e APC (a volte, come nel caso della casa editrice Elsevier, il guadagno arriva addirittura al 40%), ma nel caso dei più giovani il discorso è diverso.

E dove c'è una falla, ecco che arriva anche chi se ne approfitta: spuntano come funghi le cosiddette "riviste predatorie", contraddistinte  da un marketing molto aggressivo e dallo sbandieramento di promesse irrealizzabili, almeno se si vogliono seguire tutti i corretti passaggi della peer review, come la pubblicazione entro due settimane dall'invio dell'articolo. A pagamento, ovvio. Per mettere in guardia i ricercatori, un bibliotecario di nome Jeffrey Beall nel 2010 ha cominciato a stilare una lista delle riviste predatorie, ma era pur sempre l'iniziativa di un singolo, che è stato poi scoraggiato dalla sua stessa università per paura di conseguenze legali. Interessante notare che alcune riviste della lista di Beall comparivano anche nella lista dell'ANVUR (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) per ottenere l'abilitazione scientifica nazionale.
Come può un ricercatore orientarsi, in un panorama così denso di contraddizioni? Come fa giustamente notare nel podcast Flaminio Squazzoni,
professore di sociologia dell’Università Statale di Milano, anche riviste più blasonate a volte ricorrono al marketing aggressivo. Si è provato quindi a creare una white list per individuare le riviste che utilizzano le procedure corrette, DOAJ, che però non sempre riesce a stare dietro a tutte le nuove pubblicazioni, perché questi predatori sanno mimetizzarsi efficacemente.

Per ragioni di spazio abbiamo affrontato solo parte degli argomenti trattati nel podcast: in Paper si parla anche di studi preprint, diventati famosi durante la pandemia, archivi, gold, diamond e green open access, articoli piratati,servizi che offrono le case editrici, accordi trasformativi, storia delle pubblicazioni scientifiche e modelli di business alternativi,come quello di JHEP, il Journal of High Energy Physics, che compie 25 anni e che pubblica in open access senza far pagare la pubblicazione ai ricercatori.
Paper è insomma un viaggio molto articolato attraverso il funzionamento delle pubblicazioni scientifiche, pensato per addetti ai lavori e non: ne consigliamo l'ascolto a chi vuole orientarsi un po' meglio e districarsi tra definizioni e paradossi.

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