SOCIETÀ

Perché The Crown ha sedotto anche chi odia la monarchia

“Entro la vuota corona che cinge le tempie mortali d’un re, ha reggia la morte e là s’insedia…”. Dovendo dedicare un episodio al giovanissimo Carlo, principe di Galles, la terza stagione di The Crown sceglie di aprire con un primo piano del figlio di Elisabetta qualche istante prima di salire sul palco, mentre prova il monologo del Riccardo II, che reciterà con la compagnia del suo college a Cambridge. Il volto del Carlo ventenne è quello di Josh O’ Connor: attore straordinario, che introduce al pubblico un erede al trono pieno di insicurezze, melanconico e dubbioso. Un’interpretazione tutta silenzi, sussulti, esitazioni, riflessioni sussurrate, a incarnare un ragazzo solo, oppresso da una responsabilità non cercata e una madre statuaria, per la quale l’unico senso del rapporto col figlio è trasmettergli il concetto di regalità e dei doveri che ne conseguono. Nel raccontare al mondo il principe Carlo, The Crown riesce, dalle prime sequenze, ad annientare decenni di luoghi comuni sull’immagine del futuro re: non negandone (se immaginiamo come la serie proseguirà) vizi, bugie, contraddizioni, cattiverie, ma creando un personaggio semplicemente realistico, verosimile, la cui personalità è spiegata alla luce delle asprezze e dell’aridità che il suo ruolo, e l’ambiente familiare, gli hanno predestinato dalla culla.

Per chi si chiede perché The Crown, la serie Netflix che ripercorre la vita di Elisabetta II e della famiglia reale, sia un successo in grado di conquistare ogni fascia di pubblico, senza riguardo a età, orientamenti, condizione sociale, bisogna partire proprio da questo esempio. Non è solo l’altissimo budget (si stimano ben oltre 65 milioni di dollari a stagione), lo splendore formale che si traduce in scenografie e costumi spettacolari, la perfezione nel casting. Il cuore di The Crown va cercato nella sceneggiatura, nell’abilità degli autori coordinati da Peter Morgan, creatore della serie, di rivoluzionare l’immagine pubblica della Royal Family secondo un criterio che quasi mai è stato utilizzato per raccontarla: la credibilità, la vicinanza a situazioni e sentimenti universali. Intendiamoci: The Crown è finzione, e gli eventi narrati, sia le vicende dei reali che la storia britannica che ne è cornice, si dipanano con libertà e distorsioni che hanno suscitato irritazione negli storici (e soprattutto negli agiografi) dei Royals. E questo proprio perché la cura maniacale nella pur arbitraria ricostruzione, anche visiva, degli eventi storici, l’esattezza quasi scientifica con cui sono stati selezionati gli attori che compongono il mosaico reale e tutto ciò che gli ruota intorno, la finezza delle psicologie dei personaggi, inducono lo spettatore a recepire questo grandioso spettacolo come ciò che non è.

Eppure The Crown non è un documentario, ma un feuilleton di altissimo livello, che come tale non rinuncia ad ammiccamenti, colpi bassi drammatici o sentimentali, catastrofi, tradimenti, tragedie familiari.  Ma lo fa con tale maestria da comporre una narrazione che sfugge alla melassa pop dell’industria mediatica che si nutre dei reali, dai tabloid alle biografie autorizzate, dai documentari “schierati” alla fiction ultrapopolare. Elisabetta non appare né una santa né una donna particolarmente colta o ingegnosa, ma se ne coglie l’aspetto più profondo e meno evidente: il sacrificio di una vita consacrata al dovere, che impone di rispettare un copione quotidiano costellato di rituali, ipocrisie, ripudio di ogni spontaneità e pulsione, persino nei confronti della propria famiglia. Filippo, dal canto suo, è sfuggente, donnaiolo, opportunista, ma se ne avverte il dolore costante, goccia dopo goccia, di uomo ambizioso costretto a vivere di riflesso, all’ombra della regina, reso evanescente e superfluo proprio da chi ha scelto come compagna di vita. Nel dipingere il suo affresco, The Crown mescola continuamente alto e basso, verità e menzogna, raffinatezza e colpi ad effetto: proprio come con Carlo, principe dolente, impegnato in un passo shakespeariano così smaccatamente autobiografico da non poter evocare l’eco universale dell’Amleto. O con Churchill, la cui grandezza è sempre compensata da umanissime miserie: non a caso, l’episodio più emozionante tra quelli che lo riguardano è quando dà alle fiamme il ritratto commissionato dal Parlamento per rendergli omaggio in occasione del suo ottantesimo compleanno. L’uomo che aveva fronteggiato Hitler crolla, di fronte a un artista che ne coglie la tragica decadenza senile.

Riuscirà Peter Morgan a proseguire nel “miracolo”, ora che si avvicina la quarta stagione di The Crown (al debutto su Netflix il 15 novembre) proiettandoci verso la fase più vicina a noi della storia dei Royals, con Margaret Thatcher primo ministro ma soprattutto con il melodramma più popolare degli ultimi quarant’anni, il triangolo Carlo – Diana – Camilla? Sarà interessante vedere se e come l’autore di The Crown riuscirà a mantenere l’equilibrio tra alto e basso, raffinato e popolare, introspezione e colpo al cuore, nel trattare una vicenda che per decenni ha colpito l’immaginazione collettiva e suscitato emozioni di massa, generando un mito rosanero, un colossale romanzo d’amore e morte con protagonisti talmente stereotipati da divenire eroi da copertina, oggetto del tifo opposto delle diverse fazioni. A The Crown il compito di riportarli su un piano, se non di realtà, almeno di credibilità.

Anni fa Peter Morgan ha scandalizzato i monarchici definendo Elisabetta “una campagnola di intelligenza limitata”. Eppure, al di là delle dichiarazioni ad effetto, è l’uomo che i reali britannici dovrebbero assumere come portavoce.

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