Addentrarsi nel bosco, in psicanalisi (anche quella delle fiabe), è, detto in estrema sintesi, percorrere i sentieri del proprio inconscio, fare i conti con paure e tentare di arrivare al nocciolo della propria identità.
Dal Caproni del Se volete trovarvi /perdetevi della foresta ai professori Keating che citano Whitman che cita Thoureau e i benefici, anche di termini di assestamento esistenziale, della vita dei boschi, il tema è ampliamente noto e dibattuto. La grazia con cui però lo approccia Long Litt Woon, antropologa malese da molti anni in Norvegia, è del tutto singolare, come pure l’angolazione da cui guarda al bosco: radente il terreno, tra rami, sassi e fogliame, tra le radici degli alberi, laddove i tronchi e il legname risultino fessurati e deteriorati. Dove nascono i funghi insomma.
Con La via del bosco, pubblicato lo scorso settembre da Iperborea che lo dota di copertina molto lisergica, Long Ling Woon compie un percorso parallelo tra formazione micologica ed elaborazione del lutto per la perdita prematura dell’amatissimo marito Eiolf. La scelta editoriale di Iperborea è stata quella di usare colori diversi nei caratteri del testo per la parte dedicata ai funghi (nel canonico nero) e per quella del racconto della vicenda privata dove le parole virano al verde azzurro. Trascolora così la narrazione tecnica e divertita dell’apprendista stregone micologo, in quella intima del ricordo e delle secche della vedovanza in modo repentino eppure molto naturale e autentico; non è semplice, né sempre efficace, mettere al centro di una narrazione la cognizione del proprio dolore, ma Woon ci riesce bene, con sentimento ma senza sentimentalismi. Semplicemente, con mestiere e onestà, racconta di essere stata male, malissimo, e di come l’interesse per funghi l’abbia tirata fuori dalla stanza senza chiave dove il lutto l’aveva imprigionata.
Innanzitutto perché l’andare per funghi è un incamminarsi e prendere la via di un bosco, dell’aria aperta a dispetto del mal tempo, dunque pratica sommamente salutare per corpo e anima e che peraltro avvicina l’autrice di origini asiatiche, al costume norvegese del compagno perduto. La ricerca poi richiede sensi in ascolto, protesi a ciò che è attorno: e questo è un buon modo per essere fuori di sé, oltrepassare il cerchio fatato del proprio dolore. A proposito di sensi: olfatto e gusto occupano una parte consistente della disamina di Long Litt Woon che fornisce un interessante elenco di odori percepiti nei funghi da una commissione giudicante di non addetti ai lavori messi a paragone con quelle indicati nei manuali. Così anche l’inesperto micologo impara che il prugnolo bastardo, che per i tecnici manda un odore semplice di farina bagnata, per la giuria popolare sensoriale sa di legno, cetriolo e cartone. Un aroma tecnicamente solo dolce, fruttato e forte, si può circostanziare in caramelle industriali, medicine, linoleum e automobile nuova.
E mentre snocciola ricette, nozioni, suggerimenti micologici (che potrebbero essere validi in Norvegia ma non applicabili in Italia, è specificato come nota in traduzione), aneddoti di quella che diventa per l’autrice una specializzazione molto seria, la Woon fa un’analisi attenta delle parole per dire il dolore e la natura; ed è evidente come nella rendicontazione della sua ricerca in questo libro trovi coronamento e supplemento di cura: “ho perso mio marito” scrive “ e di solito la gente capisce…ma per me la parola perso significa anche che lo cerco, cerco indizi del fatto che lui sia ancora part della vita su questa terra”, e forse non è un caso che l’antidoto alla tristezza della perdita sia per lei dentro un’attività di ricerca, né che le illustrazioni dei funghi, nel libro, siano verdi-azzurre come i caratteri delle lettere che raccontano di Eiolf. E tra studi sui veleni e nomenclatura pagana, ricognizioni sui mille nomi internazionali di quello che in Italia chiamiamo porcino, digressioni sul latino senza affettazione dei micologi, l’antropologa riesce a parlare di uomini oltre che di miceti: la sua prima osservazione in apertura di libro, è sulla disomogeneità sociale dei cercatori di funghi.
Così, per gradi, il dolore che riempie del tutto le prime pagine del libro non si dissolve, ma si fa di lato, non occupa tutto lo spazio, “rimane un’orma nel mio cuore”, non ostacola più il cammino ma diventa compagno di viaggio lungo la via del bosco.