Io non ho davvero nulla contro Vittorio Colao e il Comitato di esperti in materia economica e sociale che in questi giorni ha presentato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte il Piano Rilancio Italia 2020-2022. Anzi. Credo che siano tutte persone stimabili e competenti. E così mi sono precipitato a leggere il loro Piano, soprattutto per la parte su cui possiedo un minimo di competenza, quella della cultura. Uno dei sei capitoli in cui il Piano si articola è perfino intitolato «Turismo, Arte e Cultura», con tanto di maiuscole, sicché ho scorso pieno di speranze le venti slide che racchiudevano i suggerimenti degli esperti per quel settore. Finalmente alla cultura sarebbe stata data l’importanza, anche dal punto di vista economico, che meritava. Finalmente sarebbe stata riconosciuta come il più importante volano dell’economia di un paese.
Però, come diceva Totò, «chi di speranza campa, disperato muore». E, in fatto di cultura, anni di delusioni da parte delle nostre classi dirigenti mi avrebbero dovuto mettere sull’avviso: mi aspettava l’ennesimo disinganno. In quelle venti slide, infatti, si parlava di un piano per il turismo e per la comunicazione del turismo, di incentivi a miglioramenti strutturali delle strutture ricettive, di promozione e commercializzazione dei prodotti (?) turistici, di sviluppo di nuovi prodotti (?) turistici, di trasporti e formazione per il turismo, di attrazione di capitali privati nel turismo. Solo in due slide si proponeva una riforma della gestione degli enti artistici e culturali, quasi del tutto identificati con i musei, per sviluppare il partenariato tra pubblico e privato, e un potenziamento delle competenze museali. In un’altra, en passant, si proponeva di incrementare il numero delle Città Creative riconosciute dall’UNESCO. Fine. The End. Tutto qui.
E la cultura, sia pure quella con la minuscola? Zero, nisba. Come se, nella «società della conoscenza», fondata anche sul forte valore simbolico-culturale delle merci, che inglobano un forte contenuto culturale, la cultura fosse ancora considerata un puro lusso, un di più. Come se, fra turismo e musei, fosse auspicabile ridurre l’Italia a un’immensa Disneyland o a un’immensa Pompei o a una sovrapposizione delle due e pensare di risolvere così i nostri problemi. Come se fossero ancora i tempi del ministro Tremonti che dichiarava «Con la cultura non si mangia». Come se in Italia gli occupati nel settore culturale e nella sua «filiera» non fossero quasi quattro milioni e mezzo, come se la percentuale del valore aggiunto dell’industria culturale sul totale dell’economia non arrivasse al 15 per cento del Pil.
Ma come fare una colpa a Vittorio Colao e al suo team di esperti se non hanno minimamente pensato a tutto questo? Sono in ottima compagnia. Come avevano raccontato già alcuni anni fa Pietro Greco e il sottoscritto, in un libro intitolato La cultura si mangia!, con tanto di punto esclamativo, è da svariati decenni, infatti, che la classe dirigente italiana, di destra o di sinistra, insiste sugli stessi errori, non individuando mai le cause profonde, strutturali, del declino del nostro paese, limitandosi alle chiacchiere su quelle più immediate e appariscenti. All’inizio degli anni Sessanta, infatti, il nostro paese scelse, o subì, per ignoranza o ristrettezza di vedute, un «modello di sviluppo senza conoscenza», basato sulle medie e basse tecnologie, invece di puntare su un modello basato sull’innovazione e sulla cultura. Da allora, l’Italia non ha fatto che arrancare, perdere posizioni, crescere (quando lo fa) poco e male. Cambiare la specializzazione produttiva del paese e accettare le sfide dell’economia della conoscenza, puntando sulla cultura, sarebbe tanto più necessario oggi, dopo questa ennesima crisi, quella generata dal Covid-19. E invece.
Non eravamo gli unici a sostenere queste tesi, non eravano gli unici a rimanere inascoltati. Christian Caliandro e Fabrizio Federici scrissero: «La crisi è una soglia, e al tempo stesso una trasformazione, che richiede la totale e radicale riconfigurazione dei paradigmi, dei punti di riferimento che regolano la nostra percezione del mondo. E non c’è nulla come la cultura che riesca ad assolvere questa funzione, nella maniera più completa ed efficace: la cultura ci addestra a trovare soluzioni inedite a problemi che ci paiono insormontabili, mutando i punti di vista sui fenomeni, stabilendo connessioni tra eventi e idee, articolando livelli molteplici di interpretazione. Compito della cultura dunque, in una fase di transizione epocale come quella che stiamo attraversando, non può che essere – dopo aver ratificato ed analizzato la fine dell’epoca precedente – immaginare, articolare e costruire l’epoca nuova». E invece.
Insomma, il declino e la crisi non si combattono solo salvaguardando e valorizzando i monumenti e i siti archeologici. Per affrontarli davvero, non basta neanche allestire grandi centri scientifici accanto a industrie dinamiche e poi tutto quello che c’è da fare è ottimizzare il «trasferimento del know how». Niente affatto. Non funziona così. Il passaggio all’economia della conoscenza si realizza solo ed esclusivamente lì dove c’è un ambiente culturale e umano «complessivamente creativo». Non è un caso che negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso uno dei centri più importanti, anzi l’emblema stesso della nascente economia fondata sulla conoscenza, sia stata la California: con le sue grandi università, i suoi centri di ricerca, la sua Silicon Valley, ma anche con i suoi studios cinematografici, le sue avanguardie artistiche e letterarie. Il suo stile di vita. In altri termini, la sua industria culturale.
Di conseguenza, come scrivevamo all’epoca, se si riconosce il valore della cultura (anche soltanto da un punto di vista strettamente economico), bisogna essere disposti a valorizzare coloro che la producono (redattori, grafici, programmisti, editor, autori, librai, attrezzisti, macchinisti, architetti, designer, distributori e promotori librari e cinematografici, creativi di videogiochi, sviluppatori software, aiuto registi, tecnici del suono o delle luci, sceneggiatori, archivisti, curatori di mostre, ricercatori, musicisti, eccetera eccetera, sparsi tra case editrici, industria cinematografica, musei, teatri, televisioni, giornali, riviste, case discografiche, istituzioni pubbliche o private, piccole imprese creative, studi di architettura o di design) e metterli in condizione di farlo al meglio, soprattutto di lavorare con dignità. Liberi dall’arbitraria precarietà imperante nel settore e con strutture di welfare che li proteggano, come avviene negli altri paesi europei, appena fuori dai nostri confini. Perché gli intellettuali (o come diavolo vogliamo chiamarli) dovrebbero essere una riserva morale, una fonte di speranza, un «motore» in grado di trainare la nazione: «la colonna vertebrale» di un Paese. E invece.
Nel Piano Rilancio Italia 2020-2022 di Vittorio Colao e del Comitato di esperti ci sarebbe piaciuto leggere qualche indicazione che andasse in questa direzione, o almeno una minima consapevolezza dei problemi strutturali del paese legati alla cultura e all’innovazione. Invece non ne abbiamo trovato traccia. Magari qualcosa ci sarà nel capitolo riservato a «Istruzione, Ricerca e Competenze», sempre con tanto di maiuscole. Ma, lo confesso, non ho avuto il coraggio di leggerlo. Io, precarissimo lavoratore creativo e della conoscenza, ho già troppi problemi per affrontare l’ennesima delusione.