L’ironia aiuta a pensare meglio, forse. Il termine italiano viene dal greco, quando il significato si associava all’interrogare altri simulando una propria incompetenza e, significativamente, secondo Aristotele, il contrario era la millanteria, propria di crede o vuol fare credere di sapere. A partire da Socrate e Platone, non c’è filosofo che non ci abbia ragionato sopra. In molte lingue dell’attuale Europa si dice allo stesso modo con diversa lettera finale: Ironia in spagnolo portoghese polacco ungherese, Ironie in francese tedesco olandese, Irony in inglese. Ovviamente questo non significa che sia utilizzato spesso e nello stesso senso, comunque è indicativo che serva talora pensare e usare quello stesso antichissimo sostantivo, almeno fra europei. Prima che come stile o modalità nel parlare e nello scrivere associamo l’ironia al pensare, per cortesia, quanto più spesso possibile. Vocabolari o meno, ironia non è sinonimo di umorismo e satira, anche se tendiamo ad associarli tutti ad atteggiamenti scherzosi e sorridenti nelle dinamiche relazionali, che si legga o che si ascolti. Pur consapevoli di una certa grossolanità (esistono saggi, monografie, dispute e festival a riguardo), suggerisco qui di distinguere tre binomi: umorismo e comicità, satira e parodia, ironia e sarcasmo, tenendo presente che ognuno dei sei sostantivi (e anche altri come humour, ridicolo, ecc.) meriterebbe riflessioni e bibliografie assestanti: con il primo binomio si ride di prim’acchito per goderne, con il secondo si sorride e ride nel distinguere, con il terzo si sorride (anche da soli) innanzitutto per ripensare e apprendere.
Il modo in cui pensiamo e spesso parliamo è aperto, impreciso, incompleto e (non di rado) ambiguo. Il riso è indotto dall’esterno e nasce dall’inaspettato, sottolinea e convoglia gli aspetti comici di una realtà in cui esistono (almeno) due diversi significati, o diversi punti di vista, nella medesima frase ascoltata o letta. Il divertimento nasce proprio dal cambio di direzione, la doverosa risata ne è un effetto, realizzato quando separiamo efficacemente la realtà dalla finzione e il contesto non ci trasmette rischi per la nostra esistenza. Pur non stimolando quasi mai acute riflessioni, l’umorismo e la comicità sono arti nobili e importanti, ben remunerate: abbiamo un gran bisogno (e un gran vantaggio evolutivo) di ridere bene e spesso, non vergogniamoci di frequentare umoristi e comici. Tuttavia, il riso aperto è un automatismo raro, episodico, puntiforme.
Satire e parodie possono anche indurre al riso, ma sono narrazioni, modi di raccontare una persona, una situazione o una storia, stili e generi narrativi più che singole battute e barzellette. Creano un clima sorridente, nel quale vengono rappresentati individui e relazioni che conosciamo da prima, ora in un contesto differente. La satira e la parodia servono a scuotere (più la prima che la seconda), alterare e riconsiderare la percezione di cose che stavano già nei nostri pensieri o fra le nostre informazioni. Possono essere più o meno umoristiche e indurre anche a ridere. Non a caso, vengono spesso usate per castigare costumi e poteri, portandoli “in giro”: indicano alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene (come spiegò la Corte di Cassazione in una sentenza del 2006). Fare satira è un diritto, spesso remunerato.
L’ironia consiste nel dichiarare intenzionalmente (soli o in compagnia o in pubblico) anche il contrario di ciò che si pensa, dice o scrive, con lo scopo di relativizzare pensieri, frasi, concetti. Pensare il contrario è un po’ scherzarci su, toglie seriosità e aggiunge divertimento. Più che indurre al riso solletica la psiche, il conscio e l’inconscio. Si tratta di un artificio fecondo, di una spontanea opportuna parziale “finzione”. Contiene una voluta sarcastica incongruità, la discordanza con una precedente dichiarazione oppure una connessione che va al di là del semplice ed evidente significato di pensieri, parole, temi. Falsifica la realtà, si potrebbe dire, come consapevolezza argomentativa, struttura discorsiva, figura retorica. Può essere interiore, autoespressa, interpersonale o sociale; pensata, verbalizzata, scritta o disegnata (perlopiù attraverso caricature). Non è più lunga e complicata delle altre, seppur raramente faccia ridere e spesso anche il sorriso sia amaro. Esistono nella storia della letteratura, dell’arte e della scienza infinite varianti e specificazioni.
Le ricostruzioni precedenti hanno aspetti schematici ed eccezioni culturali, intendono soprattutto stimolare a farci mente locale, a leggere testi in materia e a definire proprie semantica e geografia (non si ride né sorride allo stesso modo in ogni epoca e in ogni ecosistema), a costruire un proprio pensiero ironico. Pensiamo sempre intenzionalmente prima di metterci a scrivere, anche i dotati che riescono a farlo poi di getto. E, comunque, nello scrivere si può rileggere, si dovrebbe farlo, correggere, affinare, integrare, tagliare. Non sempre pensiamo prima di parlare, alcune reazioni verbali non sono intenzioni pensate, vengono fuori senza filtri cerebrali, pur se sempre nel cervello hanno origine e causa. Anche per dati neuroscientifici è bene, dunque, fermarsi un attimo a riflettere su stile e modalità dei nostri pensieri rispetto ad alcuni parametri, quanto (poco) siano espressione dell’unica identità, quanto (poco più) sia possibile prendersene cura, se esistano persone socialmente ironiche, se ci si possa educare a rudimenti di civica ironia (insieme a evoluzione e Costituzione).
Considero il pensiero ironico una forma di conoscenza libera e di comunicazione mite che favorisce il soggetto debole di una relazione, che impone rispetto e stimola consenso, che induce soluzioni pacifiche delle controversie. Il pensiero ironico come azione, non solo come reazione. Pensiamo con ironia, accettiamo la relatività della conoscenza, l’impossibilità di giungere a comprensioni assolute. Pensiamo con ironia, incorporiamo nella decisione e nell’azione la parzialità (i limiti) delle decisioni e delle azioni. Pensiamo con ironia, non subiamo acriticamente lo stato di cose presenti e diffidiamo di chi si presenta sempre sul carro dei vincenti. Ascoltiamo e parliamo con riconoscibile ironia, in qualche occasione basta poco: aggiungere un “forse”, un “anche”, un dubbio, un sorriso, un’interdisciplinarietà. Forse è opportuno anche per chi tende a pensare troppo o ha troppi pensieri. Pensare fa perlopiù bene. I troppi pensieri non sempre. E, comunque, troppi pensieri fanno spesso pensare meno bene. Troppi pensieri tolgono leggerezza alla vita, complicano gli sguardi, appesantiscono la vista, dilungano le parole, svicolano i dialoghi, distraggono la conoscenza personale, ostacolano la storia orale. Ne so qualcosa. L’ironia assorbe il troppo, almeno un poco.
C’è una riforma nel mondo della politica forse mai proposta. Chi si candida e accetta ruoli pubblici dovrebbe concretamente circondarsi di amici e compagni che gli danno qualche volta torto, con perspicacia e ironia. Serve, assolutamente serve a chi ha maggiori responsabilità di azione e decisione. Chiedano a qualcuno che vuol loro bene, che condivide le stesse opinioni e gli stessi programmi, di cui hanno fiducia, di far loro la “caricatura” (grande arte, grande tecnica) mentre parlano, di riferire sane critiche severe e leggiadre dopo parlato, di atteggiarsi a “bastian contrario” nelle riunioni di gruppo. L’aggiunta di un punto di vista ironico assegna significati teatrali e impliciti all’enunciazione delle differenti opinioni. Vale anche per molte professioni e scienze, attività e svaghi, può accrescere l’appeal dei capi o di maschi e femmine (alfa oppure no) con benefici per altri, può contribuire a non fossilizzarci in ruoli di potere e di esserne sempre all’altezza.
Non sarebbe male pensare ironicamente anche da semplici cittadini e individui, con il parente, il partner, il collega, l’amico. Possiamo farlo anche senza dirlo, in modo silenzioso, riflessivo. E quando vediamo contese sui social, nei talk show televisivi e durante movimentate manifestazioni sociali non facciamo solo tifo, apprezziamo (non necessariamente decidendo di votarlo) chi rispetta opinioni e frasi altrui, chi non urla, chi non insulta, chi mostra pensiero ironico. La battuta, il motto, la vignetta, la caricatura, lo striscione sono comunque relazioni che hanno introiettato qualcosa dell’altro (l’avversario), ribattendo con intelligenza e nonviolenza. Possono essere comiche o satiriche, va benissimo se non si legano a contenuti violenti. Meglio ancora se sono pure o solo ironiche e autoironiche. La forza e l’efficacia stanno nel divulgare e informare, nel “pensare” senza l’insulto, il pregiudizio, l’urlo.
C’era una volta un pensatore comunista ironico, un intellettuale europeo che rifondò il noir e lo slow food quasi prima che si parlasse di loro (il Noir e Slow Food). Era lo spagnolo Manuel Vazquez Montalban (1939-2003). Quasi un quarantennio fa, chiamato a una prolusione sul “Don Chisciotte” di Miguel de Cervantes (1547-1616), parlò dell’opera come esempio di un grande pensiero ironico. Un pensiero troppo e tragicamente mancato al movimento comunista nel Novecento, così come manca agli assolutismi (ça va sans dire), ai nazionalismi e ai rigurgiti identitari (di individui e presunte comunità). La piccola lode al dubbio metodico del pensiero ironico implica che ci si possa educare conseguentemente. Provar non nuoce. Forse.