SCIENZA E RICERCA

PNRR, sparisce il piano Amaldi per la ricerca. Ora si guarda alla legge di bilancio

La quarta missione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) è dedicata a “Istruzione e Ricerca” e riceve complessivamente 33,81 miliardi di euro, la maggior parte dei quali provengono dal fondo Next Generation Eu (30,88), il resto da React Eu (1,93) e dal fondo complementare nazionale (1 miliardo).

Buona parte di questi fondi sono destinati all’istruzione di ogni ordine e grado, mentre alla ricerca giungono 12,92 miliardi di euro, 11,44 dei quali provenineti da Next Generation Eu. Sostanzialmente si tratta della stessa cifra che era prevista dalla prima bozza del PNRR preparata dal precedente governo Conte-2 e pubblicata a gennaio 2021.

In quella bozza era però testualmente citato il Piano Amaldi, una proposta di finanziamento che avrebbe voluto vedere un aumento dei fondi per la ricerca pubblica nella misura di 15 miliardi in 5 anni, per far sì che l’Italia, che attualmente spende lo 0,5% del proprio Pil in ricerca pubblica (9 miliardi all’anno, di cui 2/3 alla ricerca di base, 6 miliardi, e 1/3 alla ricerca applicata, 3 miliardi), raggiunga i livelli di finanziamento della Francia (lo 0,75% del Pil).

Ebbene ogni riferimento al Piano Amaldi è stato tolto dal testo del PNRR approvato a fine aprile dal Parlamento italiano e spedito a Bruxelles all’attenzione della Commissione Europea.

“Mi faccia dire che giustamente il Piano Amaldi è scomparso dal testo” risponde Ugo Amaldi, fisico che ha lavorato al Cern e all’università di Milano e presidente della fondazione Tera per adroterapia oncologica. “Per quanto riguarda la ricerca, il documento del governo Draghi è praticamente identico a quello che era stato approvato il 12 gennaio dal governo Conte 2. C’era il mio nome, c’era il nome del Piano Amaldi, ma in realtà i fondi reali erano molto meno di quelli che avevamo chiesto. E quindi bene ha fatto chi ha scritto il nuovo testo a togliere ogni riferimento al Piano Amaldi, che non viene per niente preso in considerazione, ora, né allora”.

Intervista a Ugo Amaldi, fisico e presidente della fondazione Tera. Montaggio di Barbara Paknazar

La proposta del Piano Amaldi nasce da un saggio a firma di Ugo Amaldi pubblicato a luglio 2020 sul volumetto “Pandemia e resilienza” curato dal think tank “Consulta scientifica del cortile dei gentili”. Originariamente la proposta di Amaldi era di far raggiungere all’Italia i livelli di finanziamento alla ricerca pubblica della Germania, che investe l’1% del proprio Pil. A ottobre 2020 Luciano Maiani (Roma, La Sapienza) e Cinzia Caporale (CNR) partendo dai dati di Amaldi hanno ridimensionato la proposta puntando a raggiungere i livelli di finanziamento della Francia. In 14 hanno firmato due lettere spedite all’allora presidente del consiglio Conte e al ministro di università e ricerca Manfredi per sollecitare la realizzazione del Piano Amaldi, un termine che in realtà è nato su Twitter, con un hashtag, da un’idea di Federico Ronchetti, fisico dell’Infn e del Cern.


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“Per fare questo aumento dallo 0,5% allo 0,75%, ovvero 15 miliardi in 5 anni, ogni anno bisognerebbe aggiungere 1 miliardo, partendo dai 9 che annualmente vengono già investiti” spiega Ugo Amaldi. “Quindi 10 miliardi nel 2021, 11 nel 2022, 12 nel 2023 e così via fino a 14 miliardi nel 2025. Posso invece dire che nel Piano presentato prima dal governo Conte 2 e poi sostanzialmente identico per quanto riguarda la ricerca dal governo Draghi c’è meno del 40% di questi fondi, circa 5 miliardi”. La gran parte degli 11,4 miliardi di euro della voce "Dalla ricerca all'impresa" infatti è destinata al trasferimento tecnologico.

Dal titolo del capitolo M4C2 “Dalla ricerca all’impresa” si capisce che l’intervento finanziario ha un indirizzo ben preciso, che è quello di favorire il trasferimento tecnologico e l’innovazione, a scapito magari della ricerca di base. Del resto uno dei principali punti deboli dell’economia italiana è proprio quello di avere una produzione di beni e servizi a basso contenuto tecnologico e di conoscenza rispetto ad altri Paesi europei e non solo. Nel PNRR sono previsti finanziamenti a strutture che consentano il partenariato tra università e soggetti privati (1,61 miliardi di euro), a centri di ricerca dedicati a tecnologie considerate strategiche come ad esempio la computazione quantistica (key enabling technologies – 1,60 miliardi) e a ecosistemi per l’innovazione (1,3 miliardi di euro). Il PNRR riesce a indirizzare l’Italia sulla strada di una maggiore specializzazione produttiva e di un maggior contenuto di conoscenza e di tasso tecnologico nella produzione di beni e servizi?

“In Italia esportiamo molto, anche più della Francia, ma soltanto il 7% della nostra produzione ha un alto contenuto tecnologico. In Germania è il 30%” riporta Ugo Amaldi. “Lo stesso si può dire per il numero di brevetti: l’Italia deposita 1/5 dei brevetti della Germania e 1/10 degli Stati Uniti. Siamo molto indietro nel campo dell’innovazione”.

Quando si parla di ricerca e sviluppo infatti, ricorda Ugo Amaldi, si parla in realtà di tre cose. La ricerca di base è quella che in inglese viene chiamata curiosity driven, “quella che si faceva ad esempio quando si studiava l’RNA messaggero che poi ha portato ai vaccini contro Covid-19”. C'è poi la ricerca applicata, non più puramente esplorativa ma rivolta a un ambito o a un problema specifico, come ad esempio lo studio di nuovi materiali ecosostenibili. E infine lo sviluppo sperimentale, che viene principalmente fatto dalle industrie e dalle imprese, che trasformano la ricerca di base e applicata, spesso fatte in ambito pubblico, in nuovi prodotti.

“Quello che manca in Italia è la transizione dalla ricerca pubblica (e a volte anche privata e applicata) allo sviluppo sperimentale e ai prodotti finali. Il Piano tenta di affrontare il problema mettendo a disposizione molti mezzi, questo è vero. Tuttavia, e questo è un punto che vorrei sottolineare, nelle altre missioni del PNRR ci sono già molti fondi per la ricerca applicata e per lo sviluppo sperimentale, in particolare per quanto riguarda la digitalizzazione e la transizione ecologica. Il trasferimento di conoscenza va bene, ma è già fatto in altri campi del PNRR. Proprio per questo, secondo me, tutti quei pochi soldi che sono arrivati al capitolo “ricerca” si sarebbero dovuti dedicare alla ricerca pubblica”.

Il presidente del consiglio Mario Draghi, nel corso della presentazione del PNRR in Senato il 27 aprile scorso, rispondendo all’intervento della Senatrice a vita e ricercatrice Elena Cattaneo, si è detto interamente d’accordo con l’invito ad assegnare tutti i fondi su base esclusivamente competitiva (tramite bandi che selezionino in base al merito i progetti migliori) e ha rimarcato la necessità di dare “più fondi alla ricerca su base ordinaria” sottolineando che “ci si ritornerà nella prossima legge di bilancio”.

Del resto il PNRR è uno strumento di intervento finanziario straordinario e non necessariamente sarebbe dovuto essere questa la via attraverso cui realizzare il Piano Amaldi, che chiede invece un finanziamento strutturale, su base ordinaria per l’appunto, alla ricerca pubblica.

La speranza è dunque di vedere il piano Amaldi realizzato attraverso leggi di bilancio che assegnino da qui ai prossimi 5 anni i 15 miliardi di euro in più alla ricerca pubblica italiana.

“La nostra è stata una sfida lunga, che ha sicuramente sortito un effetto. Di questo tema nessuno parlava un anno fa" ricorda Amaldi. "Ci si preoccupava, giustamente, di come uscire dalla pandemia, ma non si guardava a cosa sarà dell’Italia tra 10 o 20 anni”.

Il nostro Paese, ricorda Amaldi, investe in ricerca pubblica 150 euro per ogni cittadino in un anno, la Francia investe 250 euro, la Germania 400 euro. Non solo: la Francia spende il 50% in più dell’Italia in ricerca pubblica, ma spende anche il 35% di più in istruzione pubblica e il 18% in più in sanità pubblica.

“L’Italia tratta male la sanità, malissimo l’istruzione e ancora peggio la ricerca” sintetizza Amaldi. “Mi ha fatto molto piacere sentire che il presidente Draghi si è detto d’accordo con l’investire in modo strutturale sulla ricerca pubblica, l’abbiamo sempre detto. Certo nel PNRR si introduce una misura di sostegno per dare a ogni bambino italiano fino a 250 euro al mese, una cosa bellissima che per la prima volta viene fatta in Italia, anche se una misura ancora più ricca c’è in Francia e in Svizzera. È una cosa molto positiva, eppure questa è una spesa permanente. Si sarebbe potuto mettere sul tavolo anche il tema della spesa permanente in ricerca pubblica”.

“Se noi non curassimo il triangolo della conoscenza che ha come base l’istruzione e come lati la ricerca e l’innovazione, noi non ci svilupperemo mai come Francia e Germania, con cui ci dobbiamo confrontare, cioè non daremo mai all’Europa quel contributo che dovremmo dare per lo sviluppo futuro, perché non saremmo una società della conoscenza” conclude Amaldi, richiamando un concetto che era caro a Pietro Greco. “Nel PNRR il lato innovazione è ben coperto, il lato istruzione è meno coperto e la ricerca ancora peggio. L’Italia deve diventare una società giusta e della conoscenza, questo secondo me è il nostro scopo”.

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