SOCIETÀ

Una politica globale contro la pandemia da coronavirus

«It is a failing, let’s admit it». Lasciatemelo ammettere, è un fallimento. Chi parla è Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, uno dei 27 istituti dei National Institutes of Health, l’agenzia federale che si occupa di salute negli Stati Uniti. E il fallimento cui si riferisce riguarda il sistema sanitario del suo paese che non è «really geared»: non è davvero adeguato a fronteggiare la sfida del coronavirus SARS-CoV2.

Parole dure, quello di Anthony Fauci che nei giorni scorsi ha illustrato la situazione al presidente Donald Trump. Ma non lo sono meno quelle degli scienziati del Center for Vaccine Development presso il Texas Children Hospital, che denunciano i ritardi nella messa a punto di vaccini contro i coronavirus a causa della immobilità di Big Pharma, il complesso delle aziende farmaceutiche che in questi ultimi lustri ha curato altri interessi trascurando il rischio pandemia. Non si è trattata di una denuncia estemporanea: uno di loro, Peter Hotez, la denuncia l’ha formulata in un contesto istituzionale: la Commissione Scienza, Spazio e Tecnologia del Congresso.

Anche da questa parte dell’Atlantico gli scienziati non lesinano giudizi crudi. Ieri il direttore scientifico di Humanitas, Alberto Mantovani, l’immunologo italiano più citato nella letteratura scientifica internazionale, ha definito «da incoscienti» l’approccio ventilato dal Primo Ministro inglese, Boris Johnson, che alla mitigazione della diffusione del virus tramite l’isolamento preferisce la ricerca della cosiddetta «immunità di gregge».

Non sono, questi giudizi che definire severi è dir poco, frutti del caso. La sensazione – o meglio, l’analisi – della comunità scientifica internazionale è che il mondo si è fatto cogliere di sorpresa da un evento che gli esperti avevano previsto da molto tempo, da almeno quattro decenni: una disastrosa pandemia, analoga per gli effetti a quella che si è conclusa esattamente un secolo fa, l’influenza detta “spagnola”.

Cosa ci insegna, dunque, Covid-2019?

Il primo insegnamento è, ovviamente, di avere abbassato la guardia (anzi, di non averla mai davvero alzata) contro il rischio di una pandemia come quella che ci sta interessando. Anche in Italia. Prova ne sia la carenza di posti letti in rianimazione in tutto il paese. 

Ma il SARS-CoV2 ci dice anche che una pandemia di questo genere – un’epidemia globale – non può essere affrontata solo con azioni locali. Occorre una catena organica che parta dal più remoto villaggio, dalle singole regioni e nazioni e continenti per raggiungere un centro di governo della sanità mondiale.

L'analisi della comunità scientifica internazionale è che il mondo si è fatto cogliere di sorpresa da un evento che gli esperti avevano previsto da molto tempo

Si dirà: ma questo centro esiste, è l’Organizzazione Mondiale di Sanità (l’OMS), l’agenzia delle Nazioni Unite che ha sede a Ginevra. Ma questo centro, lo anticipiamo, non ha sufficienti poteri. Non può imporre una politica sanitaria a tutti i paesi del mondo. E solo una politica sanitaria sufficientemente omogenea può sperare di contenere o almeno di mitigare l’azione di un virus come il SARS-CoV2.

Questa frammentazione dell’azione l’abbiamo toccata con mano, in queste ultime settimane, anche in Italia. C’è stata – e, in alcuni casi c’è tuttora – una non perfetta unità di azione tra comuni, regioni e governo centrale. Mentre sia la Cina che la Corea del Sud hanno finora dimostrato che l’univocità dell’azione produce buoni frutti nella battaglia contro il coronavirus.

Si dovrà discutere, finita l’emergenza, sulla fragilità di un sistema sanitario nazionale che troppo facilmente si frammenta in 20 diversi sistemi regionali, tradendo il suo carattere: quello dell’universalità alla scala paese. Per fortuna, il nostro sistema sanitario, pur con questi limiti e pur con la carenza evidente di finanziamenti, sta reggendo bene allo tsunami pandemico. E di questo dobbiamo ringraziare in primo luogo i suoi operatori: infermieri, medici, ricercatori.

Molto più grave è la situazione in Europa. I 27 paesi dell’Unione si muovono ciascuno in modi e in tempi del tutto indipendenti. Il lettore scuserà la metafora bellica: ma nessuno può andare alla guerra – ricordate la vicenda degli Orazi e dei Curazi? - contro un nemico comune e potente con 27 corpi d’armata che si muovono in maniera indipendente. Occorre che gli eserciti alleati siano almeno minimamente coordinati.

È vero, non ci sono gli appigli giuridici perché Bruxelles imponga una politica sanitaria comune. La tutela della salute dei cittadini è, per la gran parte, demandata ai singoli stati. Ma questa non è una scusante. Tutt’altro. Il tema di uno spazio comune della sanità (e della ricerca scientifica) doveva essere posto fin dai primi passi verso l’Europa unita. Non è stato fatto. Ma bene sarebbe che venisse posto al più presto, anche nel corso di questa epidemia. Che i singoli 27 stati trovino il modo di demandare un centro unico dell’Unione il coordinamento dei propri eserciti antivirus. Perché basta vedere le curve di diffusione, il SARS-CoV2 non conosce confini, li travalica facilmente e si comporta ovunque nel medesimo modo. Nessuno può immaginare di vincere da solo la battaglia. Infatti oggi in Cina, dove la guerra sembra vinta, si teme il cosiddetto “contagio di ritorno”.

E questo rimanda alla dimensione globale. Non possiamo avere sul pianeta – e men che meno nel nostro continente – strategie di difesa diverse e (si veda il caso Regno Unito) persino opposte. Perché se l’azione contro un nemico globale non è globale, la sconfitta è molto più probabile.

Di qui la necessità di rafforzare il ruolo dell’Organizzazione Mondiale di Sanità. Occorre creare un autentico governo mondiale della salute che scelga (e sia messo in condizioni di scegliere) la linea da tenere contro un comune nemico e la implementi in stretto coordinamento con le istituzioni a ogni scala: continentale, nazionale, regionale e locale.

Non è un’utopia. È una necessità, se non vogliamo allargare le braccia come Anthony Fauci e dire in questa come nelle prossime pandemie: «It is a failing, let’s admit it».  

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