SCIENZA E RICERCA

I pregiudizi inconsci che guidano la nostra azione

C'è un gruppo di ricercatori di psicologia, a Stanford, che si occupa di cognizione sociale e, in particolare, di risolvere problemi in ambito di istruzione, salute, economia e giustizia penale originati dai cosiddetti bias impliciti. La psicologa Jennifer Eberhardt, che co-dirige questo gruppo, si occupa specialmente dell'ambito della giustizia penale, e ha fatto del bias inconscio il suo principale oggetto di studio.

Ma cos'è, esattamente, un bias in psicologia? Lo abbiamo chiesto al professor Massimo Grassi, del dipartimento di psicologia generale all'università di Padova.

Il bias è un pregiudizio puro e semplice: è un giudizio che viene formulato prima di vedere qualcosa, e che fa sì che ciò che si osserva assuma un altro significato in base alle conoscenze di cui si è già in possesso. Questa conoscenza pregressa, in altre parole, guida la nostra percezione. Succede molto spesso, infatti, che in contesti di tipo giudiziario, vengano riportati dei pregiudizi, anche sottili, dei quali i testimoni magari sono inconsapevoli.

È falsa l'idea che la nostra percezione sia guidata solo da quello che succede all'esterno, e da questo derivano vantaggi e svantaggi: in situazioni confuse, infatti, il cervello spesso fa una sorta di lavoro statistico per capire quanto probabilmente una certa circostanza sia proprio quella che si sta immaginando. Quando, per esempio, ci troviamo a dover seguire una conversazione in un bar o in un ambiente rumoroso, ciò che ci arriva all'orecchio sono parole molto disturbate dai rumori di fondo. Siamo però in grado di recuperare il significato delle parole operando dei processi di tipo inferenziale, che derivano da indizi contestuali e prosodici, e che ci aiutano a seguire la conversazione e a riconoscere, ad esempio, se un'affermazione come “ti ammazzerei!” è un'accusa oppure un'esclamazione ironica. Nei contesti in cui l'informazione ci arriva naturalmente degradata, quindi, la conoscenza a priori ci aiuta.
In contesti di tipo giudiziario, invece, spesso succede che entrino in gioco pregiudizi e stereotipi di tipo razziale, o conoscenze pregresse senza fondamento empirico”.

Come riporta un articolo di Science, nel corso delle sue ricerche, la dottoressa Eberhardt ha approfondito lo studio riguardo a questo tipo di pregiudizio nel campo della giustizia penale. Per questo motivo, ha costruito degli esperimenti per mostrare in che modo determinate condizioni sociali possano influenzare il funzionamento del cervello e istigare certi comportamenti.

Come spiega il professor Grassi: “il processo giudiziario dovrebbe fare affidamento su prove che sono prive di ogni conoscenza pregressa. Idealmente, quando si acquisiscono delle testimonianze o si richiedono degli scontri diretti, come ad esempio il confronto all'americana, bisognerebbe trovarsi in una situazione in cui il testimone elimina la sua conoscenza pregressa e osserva l'ambiente in modo neutro, basandosi solo sui fatti, come farebbero una macchina fotografica o un registratore, cosa che ovviamente non è possibile.

Inoltre, nelle perizie talvolta ci si rende conto che c'è molta conoscenza pregressa anche da parte del perito stesso. Nella letteratura forense ci sono molti casi in cui, trascrivendo ad esempio delle intercettazioni ambientali, il trascrittore trova una certa cosa proprio perché si aspetta di trovarla, cosicché confonde “fucile” con “cucine” magari incolpando un imputato che non ha commesso alcun reato”.

I pregiudizi inconsci, quindi, influenzano la nostra percezione della realtà. E per quanto riguarda i ricordi?

“Esiste una letteratura sterminata a sostegno del fatto che ciò che noi ricordiamo, molto spesso, non coincide con la realtà. Quello che ricordiamo adesso può essere modificato nel tempo, nel senso che il ricordo di una conversazione che abbiamo appena avuto può essere molto differente dopo una settimana. Il ricordo posticipato, ma anche quello immediato, non è mai uguale alla realtà dei fatti.
È un dato noto che molti dei ricordi che vengono riportati nel corso delle testimonianze sono falsi. La psicologia forense contemporanea tiene conto di questo, e spesso si occupa di indagare in modo empirico se certe evidenze che vengono manifestate in tribunale siano supportabili o meno. Spesso, per fare ciò, è utile ricostruire delle situazioni complesse, magari simili a quelle in cui il testimone si trovava, per fargli capire se ciò che è sicuro di aver visto lo ricorda davvero.

Le percezioni, quindi, non sono la fotografia della realtà, e ricordare non significa guardare una vecchia fotografia della realtà. La conoscenza fa sì che la nostra percezione sia sempre guidata. Allo stesso modo, tornare con la mente su un ricordo permette di rielaborarlo, magari immettendo degli elementi aggiuntivi in modo tale che, a distanza di tempo, il ricordo non è detto che coincida con quello che è veramente successo".

Come si può, allora, tentare di aggirare il bias?

“Come riporta l'articolo di Science, per smorzare lo stereotipo è utile pensare a come creare situazioni in cui il bias non si può sviluppare, promuovendo perciò contesti in cui persone di diverse etnie o provenienti da diversi ambienti culturali siano mescolate: un afroamericano in una comunità di bianchi caucasici non passa inosservato e attrae attenzione; per contro, in una comunità mista, le differenze di questo tipo assumono meno valore.
Inoltre, la tesi della dottoressa Eberhardt è che spesso i giudizi delle persone sono immediati, e vengono fuori “di pancia”, senza averci ragionato molto. La dottoressa allora sostiene che, quando si interroga una persona, prima di farle esprimere una valutazione, sia utile rivolgerle una serie di domande “di controllo” o di porla in contesti intermedi. Dilatando il giudizio e posticipandolo nel tempo, si fa sì che la persona sia costretta a ragionare e a bypassare la conoscenza pregressa che la porterebbe a formulare ipotesi distorte lasciandosi condizionare, ad esempio, dall'etnia”, conclude il professor Grassi.

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