SCIENZA E RICERCA

Quale fu l'esatta causa della morte a Pompei? Uno studio rilancia l'ipotesi dell'asfissia

Quando nel 79 d.C. il Vesuvio iniziò il più drammatico ciclo eruttivo della sua storia, distruggendo le città di Ercolano, Pompei e Stabia e seminando morte fino a una ventina di chilometri dal vulcano, gli abitanti dell’area furono investiti da una gigantesca caduta di pomici e lapilli, cui fecero seguito, qualche ora dopo, devastanti flussi piroclastici ad alta temperatura che risultarono fatali per tutte le persone che non erano riuscite a fuggire in tempo.

Sebbene la distruzione di Pompei sia una delle catastrofi meglio conservate della storia umana e i calchi realizzati a partire dal 1870 siano una testimonianza vivida degli ultimi istanti di vita delle vittime, gli scienziati sono ancora in disaccordo su cosa abbia esattamente condotto alla morte le persone investite dall’eruzione.

Per decenni molti esperti hanno pensato che gli abitanti dell’area morirono asfissiati tra le enormi nubi di cenere e gas tossici eruttati dal Vesuvio. Più recentemente si è invece fatta strada un’altra ipotesi che sostiene con convinzione che le vittime siano morte in modo istantaneo per effetto del calore estremo che ha vaporizzato i fluidi corporei, mentre una terza ipotesi suggerisce la possibilità che gli abitanti dell’area siano morti per disidratazione. E’ subito importante precisare che la popolazione è stata colpita in modi diversi a seconda di dove si trovavano gli individui rispetto al vulcano e dunque le ipotesi non sono necessariamente incompatibili tra loro, come vedremo meglio tra poco.

Uno studio appena pubblicato sulla rivista Plos One, condotto sui resti scheletrici all'interno di sette calchi pompeiani su cui è stata impiegata per la prima volta un'analisi chimica non invasiva, rinvigorisce la teoria che le vittime possano essere morte per asfissia e che il calore estremo delle correnti piroclastiche sia intervenuto in un secondo momento, quando le persone erano già decedute.

La ricerca, condotta dalle università di Valencia e Cambridge con la collaborazione del parco archeologico di Pompei, si è concentrata su sei calchi appartenenti a uomini e donne di un'età compresa tra i 20 e i 50 anni che avevano provato ad allontanarsi dalla città da Porta Nola e su un settimo calco ritrovato nei pressi di un edificio noto come Terme Suburbane.

Sulle ossa presenti all’interno dei sette calchi sono state eseguite analisi mediante fluorescenza a raggi X allo scopo di determinarne la composizione chimica, scegliendo i campioni che avevano subito le contaminazioni minori da parte del gesso. Questo materiale, prezioso perché grazie al metodo perfezionato da Giuseppe Fiorelli ha permesso di creare emozionanti modelli 3D dei corpi delle vittime, tuttora visibili esplorando il Parco archeologico di Pompei, può infatti contaminare la composizione chimica dei resti scheletrici e per questo occorre avere ben chiaro il livello di inquinamento. 

I risultati delle analisi effettuate sulle ossa di queste sette vittime sono stati incrociati con dati antropologici e stratigrafici, utili nella ricostruzione degli eventi pre e post-mortem degli individui, e hanno portato gli autori dello studio a ritenere che nell'area di Pompei - dove le temperature raggiunte in seguito all'evento eruttivo sono state inferiori rispetto ad Ercolano, vista la maggiore distanza dal Vesuvio - molti residenti sono morti soffocati. Lo confermerebbe anche il fatto che alcune vittime sono state ritrovate con pezzi di stoffa o indumenti non inceneriti dal fuoco e che in due casi è stata scoperta la presenza di fratture alle gambe. 

Parlando con Il Bo Live Valeria Amoretti, antropologa del Parco archeologico di Pompei che ha partecipato alla ricerca, ha precisato che i risultati dello studio vanno messi a sistema "perché si riferiscono a sette individui ma i calchi sono 90 e i resti umani ritrovati sono oltre 1000" e ha sottolineato il valore di questa metodologia di analisi non distruttiva che consente di ridurre al minimo i campionamenti non utili perché contrassegnati da un'elevata contaminazione da parte del gesso sulla matrice ossea. 

Amoretti ha puntualizzato che ogni tentativo di ricostruire la seconda fase dell'eruzione, quella più pericolosa in cui si susseguirono diverse correnti piroclastiche ad alta temperatura, deve necessariamente considerare le interazioni di queste correnti con gli edifici e con le strutture. "C’è una quantità di casi molto diversi anche solo da una stanza all’altra", ha spiegato l'esperta. Per questo motivo è estremamente difficile stabilire quale temperatura ci fosse in quelle ore a Pompei, mentre ad Ercolano è molto probabile che gli abitanti siano morti in modo istantaneo a causa dello shock termico provocato dai flussi piroclastici del vulcano a 500 °C. 

Proprio su Ercolano si concentra uno degli studi che ha contribuito maggiormente a far emergere l'ipotesi della morte immediata per shock termico. A condurlo era stato Pier Paolo Petrone, responsabile del Laboratorio di Osteobiologia umana e antropologia forense del dipartimento di Scienze biomediche all'università Federico II di Napoli, e in seguito questo filone di ricerca aveva portato anche alla scoperta dei resti di un cervello vetrificato appartenente al custode del Collegio degli Augustali, sorpreso nel sonno dall'eruzione del Vesuvio in un'area in cui la temperatura raggiunse i 520°C. 

Gianni Gallello, archeologo dell'Università di Valencia e primo autore dello ricerca che rilancia l'ipotesi dell'asfissia, ha precisato su Science che lo studio che sostiene il decesso istantaneo per vaporizzazione dei tessuti ha analizzato i resti della vicina città di Ercolano, dove in effetti molti scheletri erano contratti in una rigida posizione del pugile, caratteristica della morte rapida. Tuttavia i corpi dei sette calchi esaminati a Pompei giacevano proni in una posizione rilassata, il che fa pensare ad una morte lenta per soffocamento o sfinimento. I resti ossei sono stati confrontati con quelli di altri campioni dello stesso periodo, sepolti intenzionalmente o sottoposti a cremazione e raccolti dalla necropoli della via Ostiense a Roma e da un'altra necropoli a Valencia, in Spagna. In termini di composizione chimica, le ossa nei calchi in gesso avevano la maggiore somiglianza con i resti cremati. Ma altre prove, sottolineano gli autori, mostrano che i corpi avevano subito le conseguenze delle alte temperature a morte già avvenuta. 

A sottolineare che le vittime di Pompei non sono morte in un "singolo evento catastrofico” ma che la maggioranza di esse (quelle che erano sopravvissute alla fase dei lapilli e dei conseguenti crolli degli edifici ma che non erano riuscite a scappare in tempo da una città comunque irriconoscibile) ha perso la vita causa dell'asfissia è anche Pierfrancesco Dellino, vulcanologo dell’Università di Bari Aldo Moro che non è stato coinvolto in questo studio. Dellino è tra gli autori di un precedente lavoro, pubblicato nel 2021 su Scientific Reports, secondo cui la durata della corrente piroclastica a Pompei era stata di circa 15 minuti e aveva portato alla morte degli abitanti per asfissia. Lo studio sostiene che la temperatura di quella corrente avrebbe consentito la sopravvivenza delle persone se l'esposizione fosse stata di pochi minuti e che "nelle aree distali dove gli effetti meccanici e termici delle correnti di densità piroclastica sono ridotti, la durata del flusso è la chiave per la sopravvivenza".

"Nel record archeologico non esiste nulla di simile a Pompei", osserva Valeria Amoretti ricordando che sebbene anche l'antica città di Akrotiri, nell'attuale isola di Santorini, sia stata distrutta dall'eruzione avvenuta nel 1628 a.C. e il successivo deposito delle ceneri vulcaniche abbia consentito di conservare edifici, affreschi e ceramiche congelati nel tempo fino agli scavi archeologici che l'hanno riportata alla luce, in quel caso mancano le vittime. Finora soltanto un individuo è stato identificato come possibile vittima di quel cataclisma e si pensa che la popolazione locale sia riuscita ad abbandonare la zona in seguito alle avvisaglie di precedenti eruzioni di minore entità. L'unicità di Pompei significa anche che "ci troviamo a costruire la nostra letteratura e a creare una metodologia di lavoro che si spera possa essere esportabile", aggiunge Amoretti.

Arrivare a Pompei è un bagno di umiltà. Ci si rende conto che ogni studioso mette il suo tassello ma probabilmente non porrà la parola fine ai quesiti Valeria Amoretti

Valeria Amoretti è convinta che sarà difficile arrivare a conclusioni definitive e condivise su Pompei. "Lavorare in questo sito archeologico è un bagno di umiltà e ci si rende conto che ognuno aggiunge un proprio tassello ma che difficilmente si scriverà la parola fine".

Il primo contributo, ricorda l'antropologa, è stato quello di Giuseppe Fiorelli che ebbe tra numerosi meriti, quello dell’invenzione del metodo per eseguire i calchi delle vittime dell’eruzione. Dal XIX secolo a oggi, grazie al procedimento di Fiorelli, sono stati realizzati oltre cento calchi e Valeria Amoretti ne ha eseguiti due. "E’ vedere il volto di un uomo nel momento della morte ed è emotivamente impattante, per quanto si possa essere preparati. Al tempo stesso però lo considero anche un privilegio".

Pompei, conclude Valeria Amoretti, è una palestra metodologica unica al mondo dove è importante la collaborazione tra diverse professionalità. E anche le ipotesi avvalorate da questo recente studio necessitano di essere ulteriormente irrobustite da ulteriori analisi chimiche e antropologiche su vasta scala e con un approccio che valorizzi la compenetrazione tra materie biologiche, chimiche e geologiche. 

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