SOCIETÀ

Quando la corte decide al posto del parlamento

Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”. Così oggi continua a stabilire l’articolo 580 del codice penale che, da quanto è dato sapere, non è stato ancora dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale. La quale però, prendendo spunto dal caso Cappato, ha fissato una serie di paletti in attesa che il legislatore si decida a rinnovare la disciplina della materia.

Mentre aspettiamo il deposito della sentenza (per ora è stato diffuso solo un comunicato) abbiamo chiesto un commento a Mario Bertolissi, ordinario di diritto costituzionale all’università di Padova con una pluridecennale esperienza di avvocato di fronte alla Consulta. “Nel merito ci sono diversi elementi da tenere presenti – dice a Il Bo Live il giurista –. In primo luogo le questioni sul fine vita sono emerse in ragione delle ultime conquiste nel campo degli studi medici, con farmaci e cure che consentono di prolungare vita e salute come mai prima d’ora. Un problema che, potremmo dire in maniera rozza, riguarda soprattutto le società ricche, una minoranza sui miliardi persone che vivono sul pianeta. Altro passaggio: sul problema definito dal rapporto tra il singolo e la sua vita ci si divide di solito in posizioni opposte: per alcuni deve prevalere la libertà di scelta, mentre altri sostengono che la vita è un dono. Come persona credente, che però non ha smesso di far funzionare il cervello, osservo solo che troppo spesso mi pare che questa sollecitudine nei confronti della vita si riscontra soprattutto casi marginali o estremi. Infine c’è il problema enorme del dolore, che può esser estremo e insostenibile. Per parlarne bisognerebbe davvero trovarsi in certe condizioni, perché si tratta di questioni che intercettano la dimensione del mistero”.

In questo caso un potere si sostituisce a un altro che rimane inerte, la colpa è del legislatore piuttosto che della Consulta

Non è quindi possibile sul punto una legislazione condivisa? “Certo, ma non ci dovrebbe essere spazio per la polemica: non la si può buttare sempre in caciara”. E sulla decisione della Corte Costituzionale cosa pensa? “Sul punto concordo con il presidente emerito della Corte Cesare Mirabelli: credo che i principi fissati a suo tempo dalla Corte Costituzionale siano delle spie che rappresentano altrettanti limiti alla discrezionalità selvaggia legislatore. Ma è indispensabile che il Parlamento intervenga”.

Come evitare che in futuro un’eventuale liberalizzazione del suicidio assistito e dell’eutanasia diano luogo ad abusi sui malati? “Premesso che suicidio e istigazione al suicidio rimangono condotte illecite, è necessario di fronte ai casi più gravi dare tutto il sostegno possibile ai malati, perché possano accettare e vivere serenamente la loro condizione. Certamente quando si è soli e abbandonati è difficile non disperarsi. In seguito entra in gioco l’intervento a carattere sanitario, e qui la questione è cercare di stabilire i criteri per distinguere la cura palliativa dall’accanimento, ovviamente con la collaborazione del medico: a volte può essere un bene non impedire che la natura faccia il suo corso. È comunque molto difficile uscire dalla sfera valutazione individuale: il problema è essenzialmente morale, più che giuridico”.

La Corte Costituzionale ha trovato una lacuna nel sistema e ha dato una scadenza al legislatore per provvedere: è normale tutto questo? “Sul punto i presidenti emeriti Onida e Zagrebelsky ad esempio sono stati critici, dicendo che la Corte deve decidere, non rinviare. Io in verità ho apprezzato l’atteggiamento dei giudici, il tentativo di coinvolgere il Parlamento”. Una cosa del genere era già accaduta? “Ad esempio sulla legge elettorale, quando la Corte Costituzionale aveva avvertito il legislatore della necessità di intervenire; altre volte i giudici hanno inserito dei moniti nei provvedimenti. Poi, visto che nove volte su dieci il Parlamento non interveniva, a volte la Corte si è trovata a decidere nel merito. Mai però forse i giudici si erano espressi in maniera tanto radicale, con un intervento nel quale erano già in qualche modo fissati i capisaldi del contenuto della futura legge”.

Non c’è in questi casi il pericolo di un’invasione di campo, con un conseguente vulnus alla divisione dei poteri? “Certamente, ma in questo caso un potere si sostituisce a un altro che rimane inerte. Direi insomma che la colpa è del legislatore piuttosto che della Consulta”. E quali saranno le conseguenze pe il sistema? “Certo la situazione avrà delle ricadute, e alla lunga la deroga rischia di diventare la regola. Per questo si dovrebbe recuperare una vera centralità del Parlamento nei fatti e non a parole, aprendo un grande dibattito che coinvolga il Paese invece di fissarsi in contrapposizioni sterili”.

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