SOCIETÀ

Quando la porta non si riapre più

“In galera e buttare via le chiavi!”: è questa, sempre più di frequente, la risposta indignata alla notizia di stupri, omicidi, crudeltà contro le persone e la società; la risposta di una società che desidera con ogni forza allontanare da sé i colpevoli e le loro azioni, liquidare l’errore serrandolo in una cella per dimenticarsene, invocando la pena perpetua per poi lamentarne l’insufficienza. Perché in Italia, è comune sentire, la pena sembra non essere mai definitiva, mai certa, mai corrispondente al reato commesso. L’ergastolo, inteso come carcere fino a fine vita, si sa, non è mai tale: dopo 10 anni si ha diritto a permessi premio, dopo 20 anni alla semilibertà, dopo 26 alla libertà condizionale. Così chi ha ucciso, torturato, rapito torna nella società, a ragione o a torto, cercando un futuro residuo libero dalle sbarre e dalle ore d’aria e da una cella condivisa fra troppe persone. A onor del vero, in termini di ergastolo la legge italiana si allinea piuttosto fedelmente a quelle del resto d’Europa, per certi versi, anzi, prendendo una delle posizioni più dure; evidentemente, però, tale severità non è ritenuta sufficiente dall’opinione pubblica, che anzi continua a vedere nell’ergastolo un mero sostitutivo della pena di morte, l’unica possibilità per liberarsi del criminale, anche se non del crimine. Definitivamente, se possibile.

Qualcuno si stupirà nel sapere che effettivamente il “fine pena mai” in Italia esiste: talvolta la cella si chiude a chiave, e la chiave si butta. Nonostante dunque l’ergastolo si esaurisca dopo tempi definiti grazie al conferimento di benefici premiali ai detenuti, l’eventuale applicazione dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario (mod. Legge 356/92) elimina di fatto qualsiasi uscita dal carcere fino alla morte del condannato.  Infatti  l’ordinamento penitenziario, che definisce i benefici intesi a favorire la reintroduzione dei detenuti nella società, comprende anche un elenco di reati che “ostano” l’accesso a tali benefici: a chi si macchia di quei reati viene negata ogni misura alternativa al carcere, e senza questi benefici l’ergastolo torna ad essere “fine pena: mai”. L’articolo 4 bis, e il successivo articolo 41 bis sul cosiddetto “carcere duro”, definiscono gli strumenti di repressione carceraria destinati a piegare l’emergenza criminalità organizzata che scuoteva il paese alla fine degli anni ’80; entrarono in vigore nella loro forma definitiva nel 1992, a seguito della strage di Capaci del 23 maggio di quell’anno, dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini di scorta. Queste norme dovevano essere uno strumento temporaneo - tre anni - ma fino ad oggi la loro applicazione è stata di volta in volta rinnovata; parallelamente, la lista dei reati che portano all’“ostatività” è stata ampliata per affrontare emergenze stabilite secondo una logica forse più emozionale che pratica. 

Rimuovere l’ostativa è possibile, a patto che il detenuto collabori con la giustizia, dimostri ravvedimento e sia provata l’assenza di qualsiasi legame con ogni organizzazione criminale (art.58 ter dell’ordinamento penitenziario - d.l. 152/91). Si chiede una sorta di “pentimento”, che nella pratica si traduce semplicemente in un accordo processuale, uno scambio: il detenuto farà i nomi dei suoi complici, dei mandanti, dei collaboratori, e costoro prenderanno il suo posto. Mors tua vita mea. Ma a quale prezzo? Questo sistema è realmente efficace? In effetti, nei primi anni della loro applicazione gli articoli 4 bis e 41 bis produssero un’ingente quantità di “pentiti”; purtroppo molti di loro fecero nomi di innocenti, con lo scopo si riguadagnare la libertà pagando un prezzo minimo. E’ così che crollò il primo impianto accusatorio del processo Borsellino, basato sulla falsa confessione del “pentito” Vincenzo Scarantino, sbugiardato solo nel 2008, dopo tre gradi di giudizio, dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. La storia raccontata da Scarantino aveva portato alla condanna di undici persone, di cui sette all’ergastolo.  Non si tratta di “pentimento” ma di “collaborazione”: di una scelta processuale, che talvolta vera scelta nemmeno è.  Perché collabora chi ha poco o nulla da perdere, chi ha già elaborato e concordato i nomi giusti. Perché invece ad altri fanno paura le ritorsioni, si teme che la vendetta si abbatta sui propri parenti; perché non si vuole tradire amici considerati fratelli e rovinare le loro famiglie; o perché semplicemente non si ha nulla da dire,  quando si è innocenti o coinvolti solo marginalmente. La non collaborazione, punita così col carcere a vita, sembra divenire più grave dello stesso reato commesso. I detenuti ostativi che rinunciano a parlare non hanno alcuna possibilità di uscire dalla propria condizione e di reinserirsi in una società convinta, a torto o a ragione, che la pena dei colpevoli coincida con la propria sicurezza.  

La pena diventa così pura afflizione ed entra in conflitto con l’articolo 27  della Costituzione italiana, non tendendo “alla rieducazione del condannato”. In realtà, la sentenza numero 153 del 2003 della Corte Costituzionale respinge l’eccezione d’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, poiché la collaborazione con la giustizia permette di riottenere i benefici premiali, anche se a caro prezzo. A farne le spese maggiori sono soprattutto coloro che non ricoprivano un ruolo di primo piano nell’organizzazione criminale o che non possono servirsi degli accordi di collaborazione:  “La maggioranza dei collaboratori di giustizia sono i veri mafiosi, invece quelli che decidono e accettano di scontare la propria pena, a mio parere, meritano una vera possibilità”, scrive nel suo blog Carmelo Musumeci,  un ostativo.  Nonostante la sentenza della Corte costituzionale, però, ciò che in questi giorni si sta discutendo nella Grande Camera della Corte Europea è un caso che non potrà non ripercuotersi sulla legislazione italiana: un gruppo di detenuti inglesi  (Vinters contro il Regno Unito), condannati all’ergastolo senza possibilità di rilascio anticipato, rivendicano il riconoscimento della propria condizione come inumana e degradante, quindi contraria all’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Se guardiamo all’Italia, verrebbe dunque minata anche la legittimità dell’ergastolo ostativo, poiché l’articolo 27 della Costituzione impone anche che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, allineandosi con i dettami europei.

Su circa 1500 ergastolani, gli ostativi sono circa un centinaio. La loro situazione arriva ai nostri orecchi semplificata, filtrata, e generalmente poco o nulla si conosce o si vuole sapere della loro realtà. La società difficilmente dimentica le violenze che li hanno condotti a subire una pena così dura; il ragionamento, forse, è ancora oggi legato troppo stretto dal filo intricato che congiunge pena, sicurezza e giustizia. Talvolta vendetta.

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