La violenza allo stadio è un argomento che torna periodicamente agli onori (si fa per dire) della cronaca. Di recente sembra che nei campi da calcio vada un po’ meglio, forse anche per merito del tanto criticato VAR, e i numeri dicono che anche sugli spalti le cose vanno meglio: il Ministro dell’Interno Matteo Salvini, tramite l’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive, ha presentato i dati raccolti fino al 30 novembre 2018 per quanto riguarda i campionati professionistici di calcio e le notizie sono confortanti. Gli incidenti e gli arresti sono diminuiti.
Purtroppo però risalgono al 26 dicembre successivo gli scontri tra le tifoserie di Inter e Napoli che hanno portato alla morte di un tifoso dell’Inter, investito da un van guidato da un tifoso napoletano in via Sant’Elena, nei pressi del Meazza. E poi c’è una violenza più sottile, meno misurabile, perché non ci sono vittime vere e proprie: la violenza verbale. Dopo la rissa, il giocatore del Napoli Kalidou Koulibaly è stato sommerso dagli ululati razzisti durante la partita: nonostante i ripetuti annunci dello speaker, si è deciso di non sospenderla, e anzi, Koulibaly dovette anche abbandonare il campo per il secondo cartellino giallo estratto dall’arbitro per gli applausi ironici al suo indirizzo. Sandro Mazzola, storica bandiera dell’Inter, intervistato sull’argomento ha messo in rilievo uno degli aspetti più importanti: allo stadio ci vanno anche i bambini, e gli adulti che esempio stanno dando alle nuove generazioni?
Un interrogativo che si è fatto più impellente dopo la partita che ha visto il Cagliari ospitare la Fiorentina: durante il match il tifoso locale Daniele Atzori ha avuto un malore, e dalla curva avversaria è arrivato un coro di due sole, pesanti, parole: “Devi morire”. Certo, quei “pochi scalmanati insensibili”, come li ha definiti il fratello di Atzori, non potevano sapere che Daniele aveva avuto un infarto, e che di lì a poco sarebbe morto davvero. Questo però non rende meno gravi quelle due parole, e non le ridimensiona nemmeno il perdono del fratello di Atzori, affidato a una lettera inviata al direttore de L'Unione Sarda: “Vorrei che la società della Fiorentina, il sindaco della città di Firenze e tutti i veri tifosi sappiano che né io, né tanto meno la mia famiglia ci sentiamo offesi dai cori contro la vita di mio fratello. Perché so bene cosa vuol dire stare in uno stadio, dove la competizione diventa palpabile anche negli spalti. Dove lo sfottò diventa protagonista tra le tifoserie, dove la passione ti porta a dire cose che nel quotidiano non si pensano minimamente. Amo Firenze, amo i fiorentini, la culla della nostra lingua e so, come anche Dany sapeva, che cori così ci sono e sempre ci saranno negli spalti, ma che sono e devono restare tali, senza assorbirli, senza offendersi... senza ti aspetto fuori.”
Cori così ci sono e sempre ci saranno negli spalti. È così semplice? Davvero bisogna adattarsi a questa concezione del tifo, con la magra consolazione di sapere che gli “scalmanati insensibili” non sono la maggioranza dei tifosi? Perché un conto è il classico "sfottò" e un conto la violenza verbale. Tanto più se prima della partita i tifosi di entrambe le squadre si erano riuniti in un commovente cordoglio per Davide Astori, capitano della Fiorentina ed ex del Cagliari, morto l’anno scorso prima della partita contro l’Udinese: l’amara ironia dell’assonanza e del diverso trattamento riservato a Davide e Daniele è sotto gli occhi di tutti.
Sicuramente il problema non è di semplice soluzione. Con un tifoso di 50 anni probabilmente non si può più fare nulla: quelli che auguravano la morte ad Atzori non smetteranno di usare la violenza verbale per qualche tirata d’orecchie da parte della società, e nemmeno per altri provvedimenti come la chiusura delle curve o con le partite a porte chiuse. Ricollegandosi al discorso di Mazzola, forse bisogna partire da molto più lontano. Ci pensa da anni anche Giovanni Galli, ex portiere di serie A e della Nazionale: durante la partita tra gli esordienti della Cattolica Virtus e dell’Affrico, squadra di cui Galli è responsabile tecnico, sugli spalti i genitori di alcuni ragazzi sono venuti alle mani e la gara è stata interrotta. In campo alcuni ragazzini piangevano e altri chiedevano di allontanare il pubblico. Alla fine si è deciso di rigiocare la partita, e gli adulti coinvolti nel tafferuglio non la potranno vedere, perché saranno ad assistere a un corso di formazione sul valore dello sport.
Perché, anche secondo Galli, uno dei principali problemi quando si parla di violenza in ambito sportivo è l’educazione che alcuni adulti impartiscono (o, per meglio dire, non impartiscono) ai loro figli, che rischiano di crescere con la convinzione che tutto sia loro dovuto e che perdono di vista quelli che un tempo erano punti fermi, come il rispetto per l’allenatore e per le regole del gioco. Gli addetti ai lavori, gli insegnanti, gli allenatori, non possono fare tutto da soli: l’educazione deve partire dalla famiglia, e non può limitarsi a un paio di belle parole messe in fila, perché se poi vedi i genitori che si spintonano sugli spalti quelle parole fanno la fine della partita al campetto quando il bullo di quartiere si arrabbia e se ne va portando via il pallone.