SCIENZA E RICERCA

Raddoppiamo la spesa in ricerca pubblica. Se non ora, quando?

Se non ora, quando? Sì, questo è il momento di “sviluppare i limiti” imposti dalla crisi non solo sanitaria ma anche economica del Covid-19 per cercare di portare l’Italia nell’economia della conoscenza. Come? Intanto raddoppiando gli investimenti pubblici in R&S, portandoli dall’attuale 0,5% del prodotto interno lordo italiano ad almeno l’1,1% in sei anni. Passando così da 9 miliardi investiti nel 2019 ad almeno 18 nel 2026.

L’idea è di Ugo Amaldi, che l’ha illustrata in un saggio pubblicato nell’ambito di un libro collettaneo, Pandemia e resilienza. Persona, comunità e modelli di sviluppo dopo la Covid-19, pubblicato dalla Consulta Scientifica del Cortile dei Gentili. 

Ugo Amaldi non è una persona qualsiasi. Intanto è un fisico delle alte energie che intrecciato la sua vita scientifica con quella del CERN di Ginevra – il più grande laboratorio al mondo – riuscendo, tra l’altro, a trasformare la ricerca di base sulle particelle in applicazioni mediche importanti nella lotta ai tumori. E poi è il figlio di Edoardo Amaldi, il fisico collaboratore di Enrico Fermi che nel secondo dopoguerra si è rivelato il più grande “politico della ricerca e dello sviluppo” che l’Italia e forse l’Europa hanno avuto. Edoardo Amaldi, per intenderci, è stato la persona che più di ogni altra ha voluto il CERN. Tanto che Carlo Rubbia, in una bella intervista concessa molti anni fa a Piero Angela, ha definito il laboratorio ginevrino il miglior monumento alla figura di Edoardo Amaldi. Ma il padre di Ugo si è battuto a lungo per fare dell’Italia un paese all’avanguardia in campo scientifico, quindi tecnologico, quindi economico. Fu sconfitto nel corso di quella tragica battaglia consumatasi all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso e che il nostro Bruno Arpaia ha mirabilmente ricostruito nel suo romanzo Il fantasma dei fatti.

Ecco, dunque, per tutto questo e per la sua forza intrinseca, che l’idea di Ugo Amaldi ha preso quasi naturalmente il ruolo di una proposta politica offerta al Governo e al Parlamento italiano.

Non è una proposta estemporanea. Gli altri, infatti, corrono. E l’Italia non può restare ancora una volta indietro. Al contrario deve far tesoro dei suoi limiti attuali per correre più degli altri. Nel suo breve ma denso saggio Ugo Amaldi ricorda come nel 219, prima dunque della crisi da coronavirus, il Comité National de la Recherche Scientifque in Francia ha chiesto al suo governo un aumento degli investimenti di 6 miliardi in 3 anni. Amaldi ricorda che uno degli argomenti usati dal Comité è che l’Italia, a partire dal 2016, ha superato la Francia nel numero di pubblicazioni scientifiche. E questo è ritenuto oltralpe un preoccupante campanello d’allarme. Se la richiesta dell’autorevole comitato sarà accolta da Macron e dal suo governo, nel giro di tre anni gli investimenti pubblici in R&S di Parigi passeranno dall’attuale 0,8% all’1% del PIL, la medesima percentuale di investimenti pubblici (e, dunque, di fiducia nella scienza) che ha oggi la Germania.

La proposta di Ugo Amaldi è articolata. E riguarda soprattutto (ma non solo) la ricerca di base. Di quello 0,50% di investimenti attuali rispetto al PIL, l’Italia – ci ricorda Amaldi – spende una quita parte lo 0,32%) in ricerca di base e un po’ più della meta (lo 0,18%) in ricerca applicata. Tutto deve raddoppiare. Ma bisogna puntare prioritariamente sulla ricerca di base per almeno quattro motivi, scrive Amaldi: perché è lei – la ricerca che non ha altro fine che soddisfare la curiosità degli scienziati – che produce nuova conoscenza; perché è nei laboratori di ricerca di base che si preparano persone capaci di affrontare le complessità del mondo anche fuori da quei laboratori; perché è la ricerca di base che consente lo sviluppo di nuove tecnologie e si metodi innovativi.

Gli esempi storici di questa sorta di teoria dell’economia della conoscenza – che, ricordiamolo è stata alla base di rapporto con cui Vannevar Bush nel 1945 inaugurò la “società della conoscenza” – davvero non mancano. Amaldi cita, per esempio, la scoperta dei raggi X l’8 novembre 1895 con cui Wilhelm Conrad Röntgen non solo contribuì alla nascita della fisica subatomica (quando non era chiaro a tutti i fisici che gli atomi esistessero) ma ebbe un’immediata, concretissima applicazione. «Tre mesi dopo, a Liverpool – scrive Amaldi –, fu utilizzata una radiografa per visualizzare la pallottola conficcata nella mano di un ragazzo e, a Lione, fu irradiato il seno di una donna affetta da tumore. Oggi ancora, più di un secolo dopo, ogni anno centosettantamila cittadini italiani, portatori di un tumore solido, sono irradiati con fasci di raggi X d’alta energia per un periodo di 5-6 settimane». Röntgen non avrebbe mai immaginato una simile evoluzione della sua scoperta di fisica di base.

Allo stesso modo, Tim Berners-Lee quarant’anni fa al CERN inventò il linguaggio per far dialogare i computer suo e dei suoi colleghi. Mai avrebbe immaginato che oggi il World Wide Web e Internet avrebbero contribuito per almeno 100 miliardi al PIL italiano e dessero lavoro ad almeno un milione di persone. Mai avrebbe immaginato che la sua invenzione avrebbe causato la più grande rivoluzione tecnologica del dopoguerra. A proposito, il CERN non volle brevettare quella realizzazione di Berners-Lee, rinunciando a qualche migliaio di miliardi di euro ma dimostrando tutta la “potenza dolce” della ricerca pubblica.

Nella società della conoscenza nata dopo il rapporto di Vannevar Bush e innovazioni straordinarie come quella di Berners-Lee l’Italia si trova in una posizione in apparenza contraddittoria. Da un lato è largamente indietro, dall’altra è straordinariamente avanti.

È avanti con le sue scienziate (il 47% nei laboratori pubblici, molto più di Francia e Germania dove le donne sono appena il 35%) e con i suoi scienziati, che sono tra i più produttivi al mondo: più dei loro colleghi francesi, tedeschi o americani. Ma è indietro perché i nostri scienziati sono buoni, ma tremendamente pochi. Appena 5,6 ogni mille abitanti, contro i 10,9 in Francia e i 9,7 in Germania. Non va certamente meglio con i lavoratori più qualificati. Nel 2016, ricorda Amaldi, «i detentori di un titolo di dottorato di ricerca (calcolati su 1.000 persone di età compresa tra 25 e 64 anni) erano in Italia lo 0,4%, da confrontare con lo 0,8% in Francia e l’1,3% in Germania».

Sono pochi i nostri ricercatori e i nostri dottorati perché lo stato italiano investe meno di quasi tutti gli altri in Europa e nel mondo che viene definito avanzato.  Ma sono pochi anche (e soprattutto) perché gli investimenti in ricerca del nostro sistema produttivo che avrebbe il compito di tradurre in tecnologie commerciali avanzate la ricerca di base non “crede” nella scienza. Gli investimenti delle imprese italiani in sviluppo tecnologico, ricorda ancora Amaldi, sono lo 0,9% del PIL, conto l’1,4% in Francia.

Se possiamo aggiungere una postilla – non secondaria, per la verità – alla “proposta Amaldi”, diciamo che per quanto riguarda l’economia, gli investimenti in ricerca devono contribuire a cambiare la “specializzazione produttiva” del nostro sistema economico. La specializzazione italiana è nelle medie e basse tecnologie ed è così esposta alla concorrenza delle economie emergenti (ma ormai dovremmo dire emerse): questa è la causa prima di un ormai trentennale declino.

Ma restringiamo il campo, per ora, agli investimenti pubblici. Aumentiamoli nel prossimo anno di 1,5 miliardi – dice Amaldi – e poi del 14% l’anno nel successivo quinquennio. Questo ci consentirebbe di metterci finalmente al pari – almeno in questo settore generativo – con gli altri paesi europei. 

Approfittiamo dei finanziamenti europei previsti per affrontare la crisi del coronavirus. Abbiamo poche settimane per deciderlo.

Ma se non ora, quando? 

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