CULTURA

Il rapporto tra l'arte e la matematica

Primo Levi, di cui quest’anno celebriamo il centenario dalla nascita, sosteneva che se davvero esiste una «schisi» tra scienza e arte, beh si tratta di una «schisi innaturale»: perché questa separazione non la conoscevano né Dante, né Galileo e neppure «Empedocle, Leonardo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile». 

Primo Levi era un chimico, ma non era in senso stretto uno scienziato. Ebbene sono molti tra coloro che fanno ricerca e sono a tutti gli effetti scienziati, che la pensano come lui e sottolineano le profonde analogie tra il proprio lavoro e quello dell’artista. Tuttavia Norbert Wiener, uno dei più grandi matematici del XX secolo, va oltre nella ricerca delle analogie e delle origini comuni tra arte e scienza. Propone delle vere e proprie omologie tra arte e scienza. In un articolo del 1929, Mathematics and art, sostiene né più e né meno che la matematica è una vera e propria modalità di espressione artistica. Non solo perché i matematici hanno una psicologia dell’invenzione (intuizione compresa) analoga a quella degli artisti. Non solo perché il matematico come l’artista si lascia guidare (anche) da principi estetici. Non solo perché il matematico come l’artista è un creatore di forme. Ma anche perché la matematica, come l’arte, ha una storia che non è la lineare aggiunta di nuove scoperte alle precedenti, ma una vera e propria evoluzione degli stili e dei canoni di ricerca. Un’evoluzione cui non è estranea l’estetica.

Dalla rivoluzione scientifica del Seicento all’inizio del Novecento, Wiener individua tre fasi, per così dire, stilistiche della matematica. 

La prima fase, quella che definisce classicista, va dal Seicento alla prima metà del Settecento, quando i matematici sono più attenti al   della loro disciplina e la ricerca della precisione formale è avvertita come abbastanza marginale. 

La seconda fase, che Wiener definisce romantica, è caratterizzata invece dall’esigenza di un forte rigore formale. Che si esprime – sostiene ancora Wiener – nelle opere di Cauchy, Galois, Bolyai, Abel. È una fase che più tardi, lo storico della matematica Morris Kline definirà della ricerca del “paradiso della certezza”. Un vero e proprio Weltanschauung. E gli stessi matematici esprimono una visione del mondo, una tensione, sostiene Wiener, degne di Lord Byron. Il giovane francese Évariste Galoisscrive furiosamente la sua matematica la notte prima di affrontare il duello in cui perderà la vita. Mentre il passionale ungherese János Bolyai di duelli ne combatte addirittura sette. La ricerca di questi “matematici romantici”, sostiene Wiener, è segnata da un forte individualismo: Bolyai cerca la propria geometria (non euclidea); il tedesco Hermann Günther Grassmann fonda un proprio ambito di ricerca (la teoria dell’estensione) e altrettanto fa l’inglese Oliver Heaviside (il calcolo operazionale)

La terza fase, quella modernista, nasce nel Novecento e consente al matematico di accettare la sfida dei tempi e di provare finalmente a descrivere la complessità opaca e caotica del mondo reale. Ponendo termine al tardo romanticismo del tardo Ottocento: «Periodo dell’autosoddisfazione in matematica e in fisica […] in cui l’ideale del fisico era l’aggiunta di un altro decimale alle costanti già fissate, in cui molti matematici vedono il futuro come una prosecuzione assolutamente tradizionale delle linee di ricerca già scoperte». Il modernismo in matematica (come in fisica) segna una rottura. Una vera rivoluzione. Che culmina nei teoremi di Kurt Gödel e, per dirla ancora con Morris Kline, nella «perdita della certezza». Nessun sistema logico-formale può dimostrare la sua coerenza interna e la sua completezza.

Così il matematico modernista, sostiene Wiener, fa autentica sperimentazione artistica. Cerca nuovi metodi e nuove forme, lasciandosi trasportare dalla corrente. Dice: ho un’idea. Mi sembra interessante. Vediamo dove mi porta. A prescindere dal fatto che quel percorso porti a qualcosa che ha a che fare col mondo reale o no. 

Nel loro libro, Lo specchio, il labirinto e la farfalla (Edizioni Morcelliana, 2018, euro 16,50) il matematico Gian Italo Bischi e il letterato Giovanni Darconza riprendono il tema del rapporto tra matematica e arte, lo spingono fino alla seconda parte del Novecento e lo applicano in particolare alla letteratura. Anzi, alla letteratura poliziesca. Insomma ai gialli.

Anche Gian Italo Bischi e Giovanni Darconza individuano delle fasi nella matematica del Novecento. Una che definiscono modernista e che ha la sua espressione nel programma che David Hilbert propone nel secondo incontro internazionale dei matematici a Parigi nell’anno 1900. Il grande matematico tedesco si dice certo che la matematica ha e presto potrà dimostrare di avere basi formali solidissime. Basta risolvere alcuni problemi tutti sommato non di primissimo rilievo.

Ma, come abbiamo detto, di lì a trent’anni Kurt Gödel dimostrerà che né la matematica né qualsiasi altro sistema logico-formale può dimostrare, cole le sue stesse regole interne, la propria coerenza e completezza. È, appunto, la fine della certezza di cui parla Morris Kline. Gödel può essere a giusta ragione considerato all’origine della matematica postmoderna.

Qualcosa di analogo succede in fisica, in particolare in meccanica quantistica. Il principio di indeterminazione di Heisenberg manda in soffitta il determinismo e la causalità rigorosa. Non perché non posso conoscere con esattezza assoluta il futuro, sostiene il tedesco, ma perché non posso conoscere con esattezza assoluta il presente (per esempio la posizione e la velocità di una particella). 

La fase postmodernista della matematica prosegue nel dopoguerra, sostengono Bischi e Darconza, con lo sviluppo della ricerca nel campo dei frattali piuttosto che del caos deterministico. Di quest’ultimo il meteorologo Edward Lorentz ha dato una rappresentazione con una metafora di successo: basta un battito d’ali di una farfalla in Amazzonia per scatenare una tempesta inattesa in Texas. In altri termini, i sistemi complessi di cui è costituito il mondo, hanno un’estrema sensibilità alle condizioni iniziali, che rende la loro evoluzione difficile da prevedere in termini deterministici. 

In estrema sintesi, la matematica e la fisica hanno perduto il loro paradiso di certezza e si trovano oggi a dover governare l’incertezza e l’ambiguità. Sia detto per inciso: lo fanno molto bene, senza perdere la loro natura fondata sul rigore formale e metodologico. Ma acquisendo, per così dire, consapevolezza dei loro limiti intrinseci.

Ebbene, tutto questo corre in parallelo con l’evoluzione della letteratura, su cui Bischi e Darconza si soffermano con una straordinaria capacità di navigare tra i testi. Ma è proprio sull’evoluzione dei “gialli” che i due autori si esercitano in maniera particolare, perché molto esemplificativa della transizione di fase. In fondo il mestiere di detective e quello di scienziato si somigliano non poco.

C’è una fase classica, modernista per dirla alla Wiener, della letteratura gialla. Il suo eroe emblematico è lo Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle. Lui è il detective protagonista che risulta sempre vincente grazie all’applicazione rigorosa di un ferreo ragionamento di tipo logico-deduttivo. Proprio quello della matematica modernista. Sherlock Holmes vive in un mondo in cui le ambiguità sono solo apparenti e la realtà univoca. La ragione può (tutto sommato facilmente) dipanare il labirinto.

Espressione della fase che Bischi e Darconza definiscono postmodernista è invece il Guglielmo di Baskerville che Umberto Eco elegge a protagonista de Il nome della rosa. Anche Guglielmo assume l’approccio di Sherlock Holmes. Ma, malgrado la sua straordinaria intelligenza e l’applicazione rigorosa del ragionamento logico-deduttivo, Guglielmo fallisce nella ricostruzione della verità. Perché non tiene conto – non può tener conto – del caso. Questa forma di letteratura poliziesca è definita da Bischi e Darconza “giallo metafisico”. Una forma letteraria in cui persino la realtà -la realtà univoca, che appare identica a qualsiasi osservatore – viene messa in discussione. La realtà si offre in maniera diversa a chi la osserva da punti di vista diversi. Ed è spesso inafferrabile. Anche al più abile dei detective, che devono arrendersi anche loro ai teoremi di Gödel. 

Il “giallo metafisico” è solo uno dei generi della letteratura postmoderna. Ma è forse quello che più rivela la perdita di quel paradiso della certezza la cui ricerca aveva alimentato, più di un secolo fa, il pensiero positivista.

Oggi i matematici come i detective devono muoversi (devono aiutarci a muoverci) nel mondo della complessità, con tutto quel suo carico di ambiguità che, tutto sommato, lo rendono più interessante. 

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