SOCIETÀ

Ripensare l'economia: diversità è ricchezza

“Tutto è politica”, scriveva Thomas Mann. Una frase assoluta, che racchiude in sé il senso profondo delle società democratiche, nelle quali le decisioni e le azioni di ognuno contribuiscono a plasmare la vita di tutti. Questa descrizione era senz’altro adeguata per il mondo del secolo scorso – ma lo è anche per quello di oggi?

Oggi, infatti, la politica si trova a misurarsi con sfide inedite, che si esplicano su scale geografiche e temporali altrettanto nuove. La globalizzazione dei movimenti, degli scambi, della comunicazione; la comparsa sulla scena pubblica di nuovi attori economici, a volte più potenti degli Stati nazionali; l’imporsi di questioni, come la crisi climatica, che sono autenticamente globali e richiedono, dunque, un approccio concertato a livello mondiale – tutti questi cambiamenti hanno modificato radicalmente il ruolo della politica e il significato delle comunità sociali.

Bisogna poi prendere in considerazione un ulteriore cambiamento: la trasformazione del paradigma economico, e la sua rapida estensione. Oggi, infatti, viviamo in un’epoca dominata dal neoliberismo, un indirizzo economico fondato sui precetti del capitalismo, che estremizza l’idea che la libertà economica debba essere assoluta, cioè del tutto svincolata dall’intervento e dalla regolamentazione politica. Analizzando la storia del pensiero economico, risulta evidente che questo approccio è solo uno tra i tanti possibili. Eppure, la sua egemonia si è tanto estesa da renderlo oggi pressoché sinonimo di economia in senso generale. Le regole del mercato dominano le società umane, che sono ormai così interconnesse da poter essere intese, sotto alcuni aspetti, come un’unica società.

L’economista coreano Ha-Joon Chang, professore alla SOAS University di Londra, individua negli anni ’80 del Novecento il momento di svolta per il compimento di questo cambiamento di  nel pensiero economico. Ricordando, in un editoriale pubblicato sulla rivista Aeon, i suoi primi tempi da studente nel Regno Unito, racconta la deprimente povertà gastronomica del paese prima degli anni 2000. E, da economista, riflette su un possibile parallelismo: come la cultura culinaria del Regno Unito era grigia e monotematica prima di aprirsi verso tradizioni gastronomiche diverse da quella inglese, così – afferma Chang – l’economia mondiale è divenuta grigia e monotematica con l'affermarsi del capitalismo neoliberista, evento che ha portato alla marginalizzazione di tutte le altre teorie economiche esistenti. È così che, oggi, intendiamo comunemente come sinonimi i termini ‘economia’ ed ‘economia neoliberista’: non c’è spazio, nel dibattito pubblico o nella sfera politica, per approcci alternativi.

Così come il rifiuto di accogliere altre tradizioni culinarie ha reso il Regno Unito, prima degli anni '90, un luogo con una dieta noiosa e malsana, il dominio di una sola scuola di pensiero ha reso l'economia un campo limitato e con basi etiche ristrette Ha-Joon Chang

Il problema di questa ‘monocoltura’ teorica, ben evidenziato da Chang nel suo editoriale, sta nel fatto che il neoliberismo è una rappresentazione soltanto parziale del complesso mondo economico: come tale, è particolarmente adatto ad alcuni contesti e a specifiche esigenze, mentre lo è decisamente meno per esigenze e contesti diversi. L’applicazione indistinta di un medesimo approccio a una pluralità di questioni crea, inevitabilmente, punti ciechi ed errori.

A determinare l’importanza di un dibattito in apparenza così teorico è il fatto che, in realtà, si tratta di un problema che di teorico ha solo la forma. Se nel Novecento tutto era politica, potremmo dire – con Chang – che oggi “tutto è economia”. Come afferma il professore coreano, infatti, «che ci piaccia o no, l’economia è diventata il linguaggio del potere. Non si può cambiare il mondo senza comprendere questo linguaggio. In effetti, io credo che, in un’economia capitalista, la democrazia stessa non possa funzionare in modo efficiente a meno che i suoi cittadini non si intendano almeno un po’ di economia».

A ben guardare, infatti, anche la politica è principalmente una politica economica. La maggior parte delle questioni pubbliche – dalla salute all'istruzione, dalla tutela della biodiversità alla ricerca scientifica – è gestita sotto un profilo primariamente economico, con evidenti ripercussioni sugli obiettivi a cui si mira e sulla lungimiranza delle decisioni adottate.

Il caso più eclatante è proprio il modo in cui viene affrontata la crisi climatica, insieme alle crisi ambientali e sociali di natura più o meno locale ad essa collegate. Per tutelare la biodiversità, governi e istituzioni cercano una giustificazione unicamente utilitaristica: gli esseri viventi, gli ecosistemi sono degni di tutela solo nella misura in cui contribuiscono ad aumentare il prodotto interno lordo, accrescendo il benessere degli individui razionali che, nella teoria economica neoclassica, costituiscono la collettività. In quest'ottica tutto è ridotto ad asset, a elemento monetizzabile, il cui valore assoluto è determinato unicamente dal valore economico.

Ancora una volta, appare chiaro come non si tratti di una questione di lana caprina, di qualcosa che non ha un legame tangibile con la nostra vita. La rappresentazione del mondo offerta – o forse imposta – dalla teoria economica neoliberista modifica il nostro modo di comprendere la realtà e di relazionarci con essa, modificando, di conseguenza, la realtà stessa.

Ne è esempio la narrazione che la teoria economica neoclassica propone sulla natura umana. In questa prospettiva, infatti, l'essere umano è un individuo che agisce sempre razionalmente. Ciò porta a due conclusioni: da una parte, che non vi è bisogno – se non altro, in linea teorica – di un intervento esterno per far sì che il mercato, e la società in generale, siano regolati; dall'altra parte, che le scelte individuali sono sempre fondate razionalmente, e dunque essenzialmente corrette. Se la narrazione prevalente vuole che l'uomo sia, per natura, individualista, allora i comportamenti egoistici, o quantomeno orientati al proprio interesse più che all'interesse collettivo, saranno normalizzati. È quanto accade nella nostra società, come sostiene Chang: a suo parere, «l’economia influisce su cosa le persone percepiscono come normale, su come le persone vedono gli altri, e su quali siano i comportamenti ritenuti accettabili». Tutto questo genera poi effetti a cascata su tutta la struttura sociale: ad esempio, in una società i cui membri sono principalmente orientati all'interesse personale la cooperazione sarà più difficile, e si darà invece ampio spazio alla difesa delle libertà personali.

È perché tutti siano consapevoli di quanto profondamente la sfera economica impatti sulla vita di tutti noi che, suggerisce Chang, tutti i cittadini dovrebbero avere accesso a un'educazione economica di base. Chang evoca, nel suo editoriale, un'educazione economica di stampo pluralista, che non sia ‘monocolore’ ma tenga in considerazione anche indirizzi di pensiero economico diversi da quello oggi egemonico.

Se proviamo ad andare oltre la proposta del professore coreano, possiamo riconoscere che il pluralismo di vedute è certo necessario, ma non sufficiente. L'approccio neoliberista si è dimostrato fallace se applicato al di fuori del suo ristretto campo d'azione. La fallacia è risultata evidente quando questo sistema è stato posto di fronte a sfide globali di natura sistemica, come la pandemia o, ancor di più, la crisi ambientale. La narrazione del mondo e gli strumenti teorici forniti dal neoliberismo si sono rivelati, anzi, persino dannosi di fronte a simili questioni. Forse, non bisogna limitarsi ad affiancare al neoliberismo altre teorie economiche, ma bisogna ripensare radicalmente il nostro modo di comprendere l'economia stessa, immaginando un mondo in cui le alternative al capitalismo siano accettate e praticate.

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