SCIENZA E RICERCA

Nel ripristino e nella tutela delle zone umide uno strumento chiave per immagazzinare carbonio

Negli ultimi due decenni la Terra ha perso 4.000 chilometri quadrati di zone umide, una superficie pari all'intera isola di Maiorca. Per essere più precisi la diminuzione delle zone umide costiere è stata di 13.700 chilometri quadrati, dovuta in larga parte ad attività umane come l'agricoltura e l'espansione urbana, ma nello stesso periodo di tempo il ripristino di questi ecosistemi, sia naturale che guidato dall'uomo, ha consentito di compensare il 70% della perdita registrata.

Il bilancio, frutto di uno studio recentemente pubblicato su Science e condotto grazie alle osservazioni di oltre un milione di immagini satellitari scattate in tutto il mondo tra il 1999 e il 2019, rimane comunque negativo e si inserisce in un quadro generale che negli ultimi tre secoli ha visto le zone umide ridursi di oltre l’85% su scala globale. 

La diminuzione dell'estensione di questo patrimonio ha conseguenze rilevanti. A risentirne è certamente la biodiversità del pianeta, visto che sono molte le specie animali e vegetali che dipendono da questi ambienti per la loro sopravvivenza. Le zone umide sono poi una risorsa in termini di cibo, soprattutto prodotti ittici ma anche sale, e rappresentano una forte attrazione anche in chiave turistica. 

Ma perdere le zone umide può avere impatti ancora più profondi sul futuro della Terra. Un aspetto spesso non sufficientemente considerato è infatti l'elevatissima capacità di questi ambienti di immagazzinare carbonio, un fattore che li rende un alleato prezioso nella lotta ai cambiamenti climatici. A richiamare l'attenzione su questo aspetto è uno studio, pubblicato sempre su Science, che ha sintetizzato la recente letteratura scientifica sull’argomento e ha mostrato come le torbiere, le saline, le foreste di mangrovie e le praterie marine siano dei veri e propri punti caldi globali per lo stoccaggio di CO2. 

I dati parlano chiaro: le zone umide coprono solo l'1% della superficie terrestre ma se si analizza la quantità di CO2 immagazzinata per metro quadrato si scopre che ne catturano circa cinque volte in più rispetto alle foreste e addirittura fino a cinquecento volte di più degli oceani. 

Il team di ricercatori che ha condotto lo studio si è soffermato anche sui meccanismi di interazione tra le piante e il terreno e su come eseguire in modo corretto le azioni di ripristino di questi ambienti, assicurando di ristabilire quei feedback biogeomorfici che amplificano le capacità di sequestro e di stoccaggio del carbonio.

Nello studio i ricercatori si sono concentrati sul funzionamento di quelli che definiscono dei veri e propri hotspot, punti caldi per l'immagazzinamento di CO2, scoprendo che queste zone umide sono tutte costruite da piante che si aiutano a vicenda quando crescono vicine, in un processo che guida anche la cattura di carbonio. Grazie alle interazioni reciproche tra la vegetazione e la forma del terreno, in questi ambienti si creano condizioni che rendono possibile lo stoccaggio di quantità così elevate di CO2. Ma, ricorda lo studio, "l'interruzione del feedback può trasformare le zone umide da pozzi di carbonio a fonti". 

Abbiamo parlato di zone umide con Alessio Satta, ingegnere ambientale e ricercatore sui cambiamenti climatici che coordina la Mediterranean Wetlands Initiative (MedWet), rete regionale operante all'interno della più ampia cornice della convenzione di Ramsar che è stato il primo vero trattato intergovernativo su scala globale con cui si è iniziato a porre l'attenzione sulla necessità di conservare le zone umide e utilizzarle in modo sostenibile.

Istituita nel 1991 (quindi 20 anni dopo la firma della convenzione di Ramsar) MedWet riunisce 27 Paesi mediterranei che hanno ratificato il trattato ed è impegnata in progetti a tutela delle zone umide dell'area del Mediterraneo con l'obiettivo di stimolare i governi ad agire in questa direzione e parallelamente aumentare la consapevolezza del ruolo di queste aree non solo come fonte di servizi ecosistemici ma anche come scudo contro i cambiamenti climatici. 

L'articolo recentemente uscito su Science e frutto del lavoro di un team di ricercatori di Paesi Bassi, Stati Uniti e Germania ha "il grande merito di portarci di fronte ai numeri e soprattutto di mettere l’accento su come alcuni ecosistemi - nello specifico le torbiere, ma in generale le zone umide costiere, definite dalla convenzione di Ramsar come marine and coastal wetlands - hanno una grande capacità di stoccare carbonio e sequestrarlo per tempi molto lunghi", ha commentato Alessio Satta a Il Bo Live

"Perdere questi habitat, e quindi rigettare in atmosfera gli stock di carbonio in essi immagazzinati, significa ovviamente andare ad accelerare il meccanismo che è alla base del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici", osserva il coordinatore di MedWet che ha poi approfondito il trend di forte diminuzione della superficie di zone umide nel mondo, in un quadro che vede l'Italia in una situazione simile, se non peggiore, a quella dell'area mediterranea. Ci sono comunque anche esempi di buone pratiche, precisa Satta, e tra le istituzioni internazionali "la parola wetlands è entrata a pieno titolo nell'agenda delle azioni sui cambiamenti climatici. Questo indica una nuova attenzione che permetterà di fare i famosi progetti di riqualificazione e ripristino ambientale che chiediamo da anni".

Alessio Satta, ricercatore sui cambiamenti climatici e coordinatore di MedWet, approfondisce l'importanza delle zone umide. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

I dati: le zone umide sequestrano fino a cinque volte più CO2 rispetto alle foreste (se ragioniamo ad ettaro)

A livello globale le foreste trattengono ben 861 miliardi di tonnellate di carbonio e ogni anno assorbono circa un terzo delle emissioni antropiche di anidride carbonica, evitandone così l’accumulo in atmosfera. A ricordare come le foreste (soprattutto quelle tropicali e boreali) siano il secondo maggiore serbatoio di carbonio dopo gli oceani è anche l'ultimo report del Wwf, diffuso il 21 marzo in occasione della Giornata internazionale delle foreste istituita nel 2012 dalle Nazioni unite.

Senza preservare la capacità delle foreste e di altri ecosistemi naturali di assorbire ingenti quantità di CO2 dall’atmosfera, osserva il report, non sarà possibile limitare il riscaldamento globale a +1,5 °C entro metà del secolo, come prevedono gli obiettivi dell'Accordo di Parigi. Un recente studio dell'università dello Utah, pubblicato su Science, ha avvertito però che probabilmente il contributo che le foreste potranno dare nei prossimi decenni alla mitigazione del riscaldamento globale sarà inferiore alle aspettative. Questo, spiegano i ricercatori, è dovuto al fatto che la maggioranza dei modelli utilizzati per stimare la crescita futura della vegetazione mondiale non è precisa in quanto viene erroneamente dato per scontato che la maggiore disponibilità di anidride carbonica determinerà ovunque una crescita più rapida degli alberi. 

Le zone umide, al contrario, hanno un ruolo molto più cruciale del previsto: in esse è immagazzinato il 20% del carbonio assorbito dagli ecosistemi naturali del nostro pianeta e se si analizzano le capacità di assorbimento per ettaro si scopre che i numeri sono decisamente superiori sia alle foreste che agli oceani. 

Alessio Satta scende nel dettaglio approfondendo i dati delle diverse tipologie di ambienti che rientrano nella definizione di zone umide. "Parlando di torbiere il carbonio stoccato può arrivare addirittura a 2.000 tonnellate per ettaro, quindi una quantità veramente molto rilevante. Se invece ci concentriamo sui sistemi di mangrovie, zone umide costiere che non si trovano nel Mediterraneo e in Europa ma sono presenti in altri continenti, siamo intorno a 250-300 tonnellate all’anno. Mentre la Posidonia oceanica, la pianta che abita i nostri mari, assorbe ben 330 tonnellate per ettaro.

Se guardiamo la capacità di sequestro di carbonio rispetto al metro quadro troviamo una prestazione molto interessante da parte delle saline che arrivano a 250 grammi di carbonio immagazzinato per metro quadro all’anno, mentre le torbiere arrivano al massimo a 200. Sono dati che ci fanno concentrare sull’importanza della conservazione e non solo sulla possibilità di ricostruire degli habitat. Se pensiamo ad esempio alle mangrovie o alla Posidonia oceanica queste arrivano a immagazzinare carbonio dalle tre alle cinque volte in più di quello che riescono a fare le foreste tropicali e questo è un dato veramente molto importante".

Il motivo per cui questi habitat sono così performanti è in primo luogo dovuto al fatto che si tratta di piante che crescono molto rapidamente. E proprio questo è uno degli aspetti su cui si concentra lo studio frutto di una collaborazione tra università ed enti di ricerca di Paesi Bassi, Germania e Stati Uniti che rivela come i progetti di ripristino delle aree umide possono risultare molto più efficaci se effettuati in modo coerente con le capacità naturali delle piante di interagire con l'ambiente, "mimando la loro proprietà di modellarlo", come ha spiegato Tjisse van der Heide, ricercatore dell'università olandese di Groningen e coautore dello studio.

Inoltre, osserva Satta, il carbonio immagazzinato negli ecosistemi costieri e marini, chiamato in gergo blue carbon, "ha la caratteristica di essere stoccato nel suolo, al contrario di quanto avviene nelle foreste tropicali dove rimane in superficie con tutto quello che è il residuo fogliare in particolare".

"L’altra questione, valida per tutte le zone umide marino-costiere, è che i suoli sono anaerobici, quindi senza ossigeno. Questo permette al carbonio di essere incorporato nel suolo e di decomporsi in maniera molto lenta e di persistere per centinaia o addirittura migliaia di anni. Questo è uno stock straordinario che ci permette di essere ancora oggi sufficientemente resilienti rispetto al problema del riscaldamento globale. In altre parole però se noi andiamo a perdere queste zone, modificando l’uso del suolo e quindi rimuovendo zone umide a favore di altri usi, rigettiamo tutta questa CO2 in atmosfera. Perdere questi stock significa ovviamente andare a riaccelerare il meccanismo che è alla base del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici.

le zone umide sono dei fantatici pozzi di CO2 e hanno una capacità straordinaria di sequestrare carbonio e immagazzinarlo per tempi molto lunghi Alessio Satta

Un preoccupante trend di perdita di superfici a livello globale

Nonostante la loro indiscussa importanza, le zone umide sono però uno degli ecosistemi più minacciati del pianeta. "Purtroppo - conferma Alessio Satta - il trend è abbastanza preoccupante: su scala globale anche gli ultimi studi, tra cui il Global Wetland Outlook di Ramsar, parlano di oltre un terzo delle zone umide perso dal 1970 ad oggi".

Una perdita che supera di tre volte il già drammatico tasso della deforestazione. "Se poi restringiamo lo sguardo al Mediterraneo dal 1970 ad oggi è andato perso oltre il 50% delle zone umide: un dato davvero drammatico", osserva il coordinatore di MedWet.

Molteplici sono le cause che stanno portando le zone umide a veder ridurre in modo così drastico le loro superfici. "La principale spinta arriva dall'agricoltura: le zone umide sono sicuramente molto interessanti per l’uso agricolo perché sono ricche di acqua, fertili nelle aree di delta. Ma ci sono anche gli sviluppi urbani e costieri che vanno a impattare sulle zone umide anche per progetti di tipo speculativo legati molto spesso al turismo. Questo degrado è accelerato poi dal cambiamenti climatico, dall’innalzamento del livello del mare e dalla temperatura che agisce tantissimo sull’acidificazione degli oceani e quindi anche sullo sbiancamento dei coralli che sono tra le prime vittime di queste modifiche. Oltre al pH vengono a modificarsi anche altri parametri chimico-fisici come la salinità, con un conseguente stress aggiuntivo per tutti questi ecosistemi", approfondisce Alessio Satta.

La situazione italiana e qualche esempio di buone pratiche 

Passando ad analizzare la situazione italiana scopriamo che siamo tra i Paesi in cui le zone umide hanno subito le perdite più consistenti con un trend, conferma Satta, "simile o peggiore di quello mediterraneo". In Italia, come ricorda il coordinatore di MedWet, una spinta molto forte alla perdita di zone umide è arrivata nel periodo storico delle bonifiche che hanno interessato una larga parte dei territori costieri.

"Da un punto di vista geomorfologico l’Italia nasce come un territorio estremamente ricco di zone umide costiere. Alcune aree, grazie al funzionamento delle saline, hanno saputo mantenere una discreta resilienza naturale nonostante ci sia uno sfruttamento legato alle attività industriali. Le modalità di funzionamento delle saline hanno permesso di continuare ad essere luogo di biodiversità, garantendo il proseguimento dell’attività di stop-over di specie migratorie. Non è accaduto lo stesso quando le zone umide sono state completamente bonificate per creare suolo agricolo e abbiamo moltissimi esempi di questo tipo", spiega Alessio Satta.

Anche per le zone umide, così come per le foreste, oltre ad analizzare i numeri delle superfici perse o guadagnate occorre ragionare sui processi di degrado. "Eiste uno studio dell’Ispra abbastanza recente che ha analizzato lo stato delle zone umide italiane. Il dato purtroppo è molto allarmante: parliamo del 47,6% in cattivo stato di conservazione. Il 31,7% in un inadeguato stato di conservazione e appena il 5% in uno stato favorevole", ricorda l'esperto.

"E’ vero che in Italia abbiamo 57 siti Ramsar, che sono aree di zone umide riconosciute come di importanza internazionale, per un totale di ben 75 mila ettari protetti. Però questo non è necessariamente un indicatore perché bisogna poi vedere se queste aree sono gestite e conservate in maniera appropriata".

Altre 9 aree, sempre istituite secondo i criteri Ramsar, attendono il completamento della procedura di riconoscimento internazionale. "La mia sensazione è che in Italia non ci sia una forte attenzione su questi sistemi e si potrebbe fare sicuramente molto di più. Abbiamo degli esempi di buone pratiche: il più importante progetto in Italia è il Maristanis che riguarda 6 siti Ramsar nella costa ovest della Sardegna. Si tratta della più alta concentrazione di siti Ramsar del Mediterraneo, è un progetto che ha durata di 6 anni e prevede la gestione integrata di queste zone umide costiere e la creazione di una governance unitaria, oltre a specifici progetti di tutela e conservazione. La sfida che è stata lanciata e che vede anche il coinvolgimento della DG Clima dell’Ue è sulle wetlands come strumento di nature based solutions, quindi sul ruolo delle zone umide come soluzione di adattamento ai cambiamenti climatici. Il caso del golfo di Oristano è emblematico perché proprio lì abbiamo uno degli hotspot di aumento del livello del mare del Mediterraneo e le zone umide in questo contesto possono diventare una soluzione eccezionale se gestite adeguatamente per l’adattamento", approfondisce Alessio Satta.

Un bilancio a oltre 50 anni dalla convenzione di Ramsar

La convenzione di Ramsar ha da poco compiuto 50 anni. Un traguardo che stimola anche a fare dei bilanci e a definire obiettivi per il futuro. "I Paesi che ad oggi hanno sottoscritto la convenzione sono ben 171 e quest’anno in Cina ci sarà la Cop 14 che vedrà i Paesi riunirsi per discutere sul trend e sulle soluzioni per migliorare la conservazione delle zone umide. Ci sono circa 2.500 siti protetti in tutto il mondo: non sono abbastanza. Noi abbiamo partecipato anche di recente a degli studi per identificare tutti i siti che nel Mediterraneo andrebbero protetti e sono tanti, ce ne sono molti anche in Italia. Sono aree che hanno tutte le caratteristiche per meritare una protezione maggiore. In totale gli ettari protetti sono 250 milioni e restano relativamente pochi se consideriamo un periodo di 50 anni. E’ quindi necessario uno sforzo molto più importante da parte dei Paesi", osserva Satta.

C’è però una notizia positiva e riguarda proprio la capacità delle zone umide di "dare risposte concrete ai cambiamenti climatici sia in termini di sequestro e stoccaggio di CO2, sia in termini di mitigazione degli impatti, pensiamo alle inondazioni e alle piene. In questi due ambiti le zone umide sono campioni assoluti tra gli ecosistemi e possono rappresentare uno strumento fondamentale. Di questo se ne sono accorti sia l’Ipcc, sia l’Onu e l’Ue".

L'auspicio di Satta è che grazie a questa nuova attenzione si riescano a mettere in atto "progetti di riqualificazione e ripristino ambientale che chiediamo da anni. In Italia, ad esempio, ci sono casi molto interessanti che riguardano la laguna di Venezia che ha un ruolo fondamentale per mitigare tutti i fenomeni estremi".

"Credo sia il momento che i decisori politici capiscano che le zone umide sono un patrimonio inestimabile non solo per la capacità di fornire servizi ecosistemici ed economici ma soprattutto perché diventano uno strumento in assoluto più efficiente per ridurre tutti gli impatti legati ai cambiamenti climatici. E’ un momento difficilmente ripetibile in cui bisogna concentrare tutti i nostri sforzi sforzi affinché queste zone abbiamo finalmente il posto che meritano all’interno di ogni tipo di pianificazione territoriale e urbana", conclude il coordinatore di MedWet.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012