CULTURA

Roberto Camurri: Il nome della madre

Roberto Camurri, classe 1982, ha esordito nella narrativa due anni fa, nel 2018, con il fortunatissimo A misura d’uomo, pubblicato da NNEditore che ne ha letteralmente scoperto il talento, trasformando una raccolta di racconti – notevole Asfalto – in un romanzo sui generis: una collana in cui ciascuna storia è come una perla che potrebbe funzionare anche da pendaglio unico e invece si tiene con le altre. Il libro è girato di mano in mano, era nelle librerie indipendenti così come nei supermercati, alla stregua dello stesso scrittore, impegnato in un booktour che lo ha visto in giro per tutto lo Stivale, e il risultato è stato un duplice successo editoriale.

Duplice perché erano gli anni in cui NN raggiungeva il grande pubblico con Kent Haruf e la sua Trilogia della pianura, e Camurri è stato il primo italiano a regalare a NN un così vistoso accoglimento di pubblico (e di critica) ma vicendevolmente all’autore è certamente giovato l’impegno di una casa editrice, fondata da relativamente poco – era il 2015 –, con le idee chiarissime in fatto di linea editoriale, e di comunicazione.

Nel frattempo passano i mesi, Camurri si fa conoscere sui social con un modo di raccontare che, anche sui post, funziona bene. Gli esordi, lo sanno bene gli editori, possono essere dei fortunati tornado (si pensi alle migliaia di copie vendute de La solitudine dei numeri primi di un Giordano all’epoca ventiseienne e che poi ha raccontato di un “blocco della scrittura”) ma nulla è detto di quel che sarà dopo.

Camurri esce con la sua seconda prova, quella “del fuoco”, arriva la pandemia (ma questo vale per tutto, per tutti), e il romanzo, Il nome della madre, lo abbiamo in mano solo dalla metà di giugno, quando in genere tutto rallenta e iniziano i saldi dei tascabili da portare in vacanza.

Il titolo è in sé stesso ambizioso e contiene una di quelle parole “rischiose” (un’altra, per altre ragioni, è amore) che finiscono col definire un’opera prima ancora che la si legga. Fiumi di narrativa o di autobiografia sono stati scritti su “la madre” e lo hanno fatto i più grandi, anzi, le più grandi. Come non pensare subito ad Annie Ernaux, Elisabeth Strout, Joyce Carol Oates, Isabelle Allende solo restando fuori confine ed elencando i primi nomi che vengono alla mente?

Camurri spiega: “Sono stati i miei stessi editori a suggerirmi questo tema: quel che volevo raccontare in origine era un rapporto padre-figlio. E a ben vedere la madre non c’è”. Infatti la donna di cui mai si dice il nome (verrà fatto una sola volta, e quando meno il lettore se lo aspetta), moglie di Pietro, madre di Ettore e figlia di Ester e Livio, se n’è andata sparendo in un nulla denso che definisce irrimediabilmente chi resta. Ci imbattiamo qui in un’opera che stupisce, perché si discosta dalla precedente (e non è mai detto) trovando un registro delicato per parlare di resistenza, di resilienza perfino.

Il mondo di Ettore, protagonista della prima parte del libro per lasciare posto poi al figlio, cresciuto, deve essere riscritto e ogni gesto imparato di nuovo anche se continui sono i tuffi nel passato per ricostruire quella presenza di cui i due protagonisti sono orfani e sentono l’eco. In questo romanzo percepiamo, sottile e potente, l’interconnessione tra gli esseri umani e come nessuno, mai, sia veramente solo, o alieno dal resto. Camurri qui ascolta prima ancora di scrivere (che “lavora con i matti” si legge nella sua biografia in terza di copertina, e, come a volte racconta lui stesso, questo ha a che fare con come sente il mondo e lo restituisce) ma soprattutto – ci tiene a sottolinearlo, ed è vero – non giudica. Questo è quello che fa la letteratura, non giudicare, diversamente da ciò che, a volte, fanno gli uomini.

Certi comportamenti di Ettore davanti al dolore, all’inadeguatezza, all’irrompere della vita, possono non essere condivisibili ma sono profondamenti umani. Questo Il nome della madre ha in comune con A misura d’uomo: una costante ricerca di quel che siamo, di quel che c’è, o che c’era anche quando non si palesa più, restituito sulla pagina da azioni che divengono fatti, da paesaggi che riempiono l’immaginazione e il ricordo, da dettagli animali che se paradossalmente nulla hanno di poetico lo diventano.

Il nuovo romanzo di Camurri è dolcemente struggente, una ninnananna feroce: verso la fine c’è una pagina in cui si ripete cos’è perfetto. “[Il cane] ascolta mentre parlottano, mentre si muovono in mezzo a quell’erba che non è alta, che non ha bisogno di essere tagliata, che è perfetta e tutto è perfetto. È perfetto il tramonto […] è perfetto il modo in cui rimettono tutto a posto […] è perfetto il modo in cui entrano in casa […] ed è perfetto il momento in cui, accese le luci, il buio fuori, una chiave entra nella serratura, la apre […]. È perfetto quel momento”.

Ecco, Camurri riesce in questo, nel farci intravedere la compiutezza di quel che meno lo sembra. Questa è forse la sua cifra, e quindi buona fortuna a Il nome della madre.

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