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A tutti sarà certamente capitato di doversi recare in un ambulatorio medico, per ragioni più o meno importanti. Alcuni probabilmente, nel ricevere una diagnosi, una terapia o una prescrizione, saranno incappati in qualche oscuro termine tecnico di cui ignoravano il significato. Altri avranno avuto qualche difficoltà nell’esprimere in modo chiaro la propria sintomatologia o qualche esitazione nel chiedere spiegazioni davanti a frasi non del tutto comprensibili. Altri ancora saranno stati interrotti da una telefonata, ricevuti in un corridoio, o avranno appreso una prognosi infausta con poca considerazione delle implicazioni emotive. Già da questi pochi esempi (a cui vanno aggiunti anche quelli di segno opposto), è evidente che la comunicazione tra medico e paziente può costituire uno snodo importante nel percorso di cura del malato.
“Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”, sancisce la Legge del 22 dicembre 2017 n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, art. 1, c. 8). E, ancor prima, sullo stesso concetto si soffermano la Carta di Firenze e il Codice di deontologia medica 2014: “Il medico – si legge qui all’art. 20 – nella relazione persegue l’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti e su un’informazione comprensibile e completa, considerando il tempo della comunicazione quale tempo di cura”.
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Al tema il Codice di deontologia medica dedica una specifica sezione e all’articolo 33 approfondisce: “Il medico garantisce alla persona assistita o al suo rappresentante legale un’informazione comprensibile ed esaustiva sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura. Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza”.
Ebbene, come si declina tutto ciò nella pratica clinica quotidiana e quali dovrebbero essere le basi di una comunicazione efficace tra medico e paziente? Dell’argomento abbiamo parlato con Claudio Pagano e Michele Cortelazzo, che si sono occupati dell’argomento e hanno tenuto lezioni sulla comunicazione a medici in formazione. Claudio Pagano è professore associato di medicina interna all’università di Padova, attualmente consultant endocrinologist al Galway University Hospital, in Irlanda. È stato inoltre delegato per la comunicazione nella facoltà di Medicina e chirurgia dell’ateneo patavino. Michele Cortelazzo è professore ordinario di linguistica italiana all’università di Padova e direttore della Scuola Galileiana di Studi superiori. Le sue ricerche riguardano principalmente l’italiano contemporaneo e le lingue speciali, tra cui il linguaggio medico.
L’importanza di una buona comunicazione tra medico e paziente
“Non può esistere una medicina senza comunicazione tra operatore sanitario, medico in questo caso, ma anche infermiere, fisioterapista, logopedista, e paziente – sottolinea Claudio Pagano –. Perché la medicina sia efficace è necessario che ci sia un flusso continuo bidirezionale di informazioni, di percezioni, che rendono il rapporto tra medico e paziente un rapporto empatico”. Il docente spiega che oggi il modello di medicina non è più quello di tipo paternalistico di un tempo, quando lo specialista decideva il da farsi e il malato si affidava completamente, ma si è giunti a una sorta di “contratto terapeutico” tra le due parti. Il paziente è un attore fondamentale che nella maggior parte dei casi condivide le decisioni con il medico, dopo una approfondita comunicazione tra il medico stesso e il diretto interessato, e spesso con la partecipazione di altre figure come i familiari. “Il rapporto è paritetico – stabiliva la Carta di Firenze già nel 2005 –; non deve, perciò, essere influenzato dalla disparità di conoscenze (comanda chi detiene il sapere medico, obbedisce chi ne è sprovvisto), ma improntato alla condivisione delle responsabilità e alla libertà di critica”.
Continua Pagano: “Una buona comunicazione conta moltissimo, perché permette di fare le scelte più adatte per ogni specifico paziente e migliora molto la relazione, dato che una buona comunicazione è il presupposto per un rapporto di fiducia tra medico e paziente. Ed è particolarmente importante che il malato si fidi del medico. È chiaro che se riceve delle informazioni attraverso una comunicazione non appropriata, la relazione tra medico e paziente scade”.
Intervista completa a Claudio Pagano, medico, università di Padova e Galway University Hospital. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Barbara Paknazar
Il medico e i linguaggi della comunicazione
A volte però i pazienti lamentano da parte degli specialisti una scarsa attenzione agli aspetti relazionali e comunicativi. “Questo molto spesso è vero e ha molteplici spiegazioni – dichiara Pagano –. Il punto è che nel piano di studi dello studente di medicina di fatto il tema della comunicazione con il paziente, ma anche con i colleghi o con i media, è poco considerato. Non esiste un corso specifico, o l’inserimento di moduli all’interno dei corsi, per cui di fatto storicamente viene lasciata al medico la capacità di formarsi su questi argomenti dopo la laurea”. Alcune università hanno temi di questo genere nei loro percorsi di formazione, ma sono piccole nicchie a macchia di leopardo. Il docente sottolinea che qualcosa sta cambiando nell’educazione continua in medicina, dato che abbastanza spesso vengono proposti corsi di aggiornamento su questi argomenti.
Non mancano i medici che hanno un buon livello di comunicazione con il paziente, ma ciò dunque è il frutto spesso di un percorso da autodidatta, raramente di un insegnamento strutturato che prenda in considerazione i principi generali della comunicazione (non solo tra medico e malato). “È importante, per esempio – continua il docente –, sapere che solo una piccola parte della comunicazione con il paziente è una comunicazione di tipo verbale, stimabile intorno al 10%; un altro 40% è una comunicazione paraverbale, ma la quota più importante, il 50% della comunicazione anche con il paziente è di tipo non verbale”. Contano dunque non solo le parole, ma anche il modo in cui i concetti vengono esposti, in un caso il tono di voce, il ritmo, il timbro, il volume, dall’altro le espressioni facciali, la postura, i movimenti del corpo, la prossemica. Si pensi al primo anno di pandemia da Covid-19: nei reparti dedicati, il malato era allettato con mascherina, ossigeno, a volte con il casco della CPAP; il medico aveva tuta, visiera, occhiali, due mascherine, guanti e tutto ciò in un ambiente molto rumoroso. In questo caso, la comunicazione era necessariamente molto poco verbale – dato che la parola per essere compresa doveva venire urlata – ma era fatta piuttosto di sguardi, di prossemica. Era dunque prevalentemente una comunicazione non verbale.
Ascolto e multiculturalità
Ignorare le basi della comunicazione può portare i medici a compiere grossolani errori, come quello – per citare qualche esempio – di posizionare un monitor sul tavolo che ostacola la visione diretta del paziente o di non guardare negli occhi il malato quando gli si parla. “In questo caso, la mia voce – spiega Pagano – dà messaggi verbali di un certo tipo, ma la mia prossemica, il mio sguardo dice tutt’altro. Questo tipo di messaggi contrastanti tra loro è estremamente dannoso nel rapporto tra medico e paziente, perché nella migliore delle ipotesi quest’ultimo non si fida di ciò che il medico dice, visto che il suo corpo comunica qualcosa di diverso”.
Il docente si sofferma anche sull’importanza di ascoltare il malato. “Il medico è troppo spesso concentrato su ciò che vuole comunicare al paziente o di cui vuole informarlo, mentre una quota altrettanto importante della comunicazione è l’ascolto. Il medico ha pochi minuti, pochi istanti in genere all’inizio della visita, per capire chi ha davanti, che livello di comunicazione il suo interlocutore è in grado di comprendere e di accettare, e questo lo si fa prima di tutto ascoltando il malato”. Proprio attraverso l’ascolto (e a una serie di domande pilota), il medico può comprendere per esempio in che misura, davanti a una diagnosi particolarmente grave o a una prognosi infausta, il paziente sia in grado di accettare la realtà medica. A differenza di un tempo, oggi infatti il malato vuole quasi sempre essere messo al corrente della propria situazione clinica anche in casi particolarmente gravi e questo richiede allo specialista la capacità di scegliere il modo migliore per dare al paziente le informazioni.
Un altro aspetto da considerare, poi, è la multiculturalità. “Noi ragioniamo pensando alla popolazione italiana che è già comunque variegata – osserva Pagano –, ma oggi viviamo in una società multiculturale. La morte, la sofferenza, la nascita, il dolore, la malattia sono concetti che hanno un significato molto differente nelle diverse culture. Io ora lavoro in un ambiente anglosassone, in Irlanda, e per un anno ho prestato servizio in un contesto medio-orientale, in un Paese islamico a forte base religiosa: ebbene, l’approccio alla malattia nei due casi è molto diverso”. In Italia vivono cinesi, indiani, bengalesi, mediorientali, persone dell’Est europeo e la loro cultura non è sempre ben conosciuta. “Noi applichiamo il modello della cultura italiana, ma non è detto che sia il migliore nei confronti di questi pazienti”.
Intervista completa a Michele Cortelazzo, linguista, università di Padova. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Barbara Paknazar
Quali parole usare?
Michele Cortelazzo spiega che i piani di comunicazione tra medico e paziente sono molteplici. C’è innanzitutto il piano dell’oralità, ma c’è anche il piano della scrittura che pure è una componente rilevante dell’attività del medico: basta pensare ai referti, alle lettere di dimissioni dopo un ricovero, alle prescrizioni che il paziente si trova a leggere. Esiste poi un aspetto tecnico-scientifico da considerare: il medico possiede un bagaglio di conoscenze con un linguaggio che è il più efficace a livello scientifico, ma che non sempre è quello del paziente. Ancora, c’è un aspetto relazionale ed emotivo, un bisogno di rassicurazione da parte del malato di non facile gestione dal punto di vista linguistico. Infine la comunicazione tra medico o istituzioni sanitarie e paziente avviene anche sul piano amministrativo.
Ebbene può accadere che lo specialista, nel comunicare una diagnosi o un percorso terapeutico per esempio, ricorra a un linguaggio che non sempre il paziente è in grado di comprendere. “Il medico – sottolinea Michele Cortelazzo – dovrebbe essere consapevole delle sue conoscenze linguistiche e di quelle del paziente. Questa consapevolezza potrebbe aiutarlo a capire quando una certa passività del suo interlocutore è dovuta a timore o spirito reverenziale e quando a una non comprensione. La questione fondamentale è rendere il medico (e particolarmente il medico in formazione) consapevole che il linguaggio che impara nelle aule dei corsi di laurea in Medicina coincide solo parzialmente e in misura molto limitata al linguaggio delle persone con cui avrà a che fare”. Prendendo le mosse da questo presupposto, si possono poi trovare delle vie individuali, a seconda del malato. “Il punto principale è riconoscere che c’è una diseguaglianza, di conoscenze, di competenze e di consuetudini linguistiche. Da qui si parte, e l’ideale sarebbe affrontare caso per caso, perché ogni paziente è una persona diversa, in un momento della propria vita diverso”.
Semplificare o spiegare?
Se queste sono le premesse, secondo Cortelazzo la semplificazione dei concetti non dovrebbe essere tuttavia la strada da seguire. “Semplificare non è mai la soluzione più facile ed efficace – sottolinea Cortelazzo –. Molti anni fa uno studio ha calcolato che la terminologia medica è fatta di 100.000 parole. Se noi teniamo presente che un vocabolario della lingua italiana ha intorno alle 140.000 parole, significa che la lingua della medicina è una seconda lingua. Allora il medico più che semplificare, dato che ha bisogno di quelle 100.000 parole perché distinguono casi diversi, deve piuttosto spiegare al paziente cosa significa quello che dice”. Secondo il docente, lo specialista dovrebbe dunque spiegare una determinata situazione clinica, e solo poi indicare i termini tecnici con cui la stessa viene definita. “Questo è il primo degli accorgimenti, e non si tratta di semplificare ma di spiegare. Anche perché nella maggior parte dei casi dal punto di vista del medico la terminologia specialistica è nata per una effettiva necessità comunicativa. Tuttavia, bisogna ricordarsi che è un’altra lingua rispetto alla lingua comune e che spesso il paziente, il parlante, discute di quegli stessi argomenti con maggiore approssimazione e con altre parole”.
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La formazione del medico
Sul percorso che i medici dovrebbero intraprendere, interviene ancora una volta la legge 22 dicembre 2017, n. 219 (art. 1, c. 10) secondo cui la formazione iniziale e continua dei medici dovrebbe comprendere anche la formazione in materia di relazione e di comunicazione con il paziente. Prima ancora, la Carta di Firenze nel 2005.
Su questo aspetto Pagano sottolinea: “Sarebbe importante che fosse inserito nel piano degli studi del futuro medico un corso di comunicazione, possibilmente non nei primi anni, ma quando lo studente tocca con mano la realtà del malato, perché un conto è studiare le malattie, altra cosa dedicarsi al paziente con cui l’aspetto comunicativo diventa importante. Una possibilità, senza stravolgere il curriculum, potrebbe essere la seguente: i singoli docenti nelle loro rispettive materie inseriscono alla fine un piccolo modulo su come si comunica un certo tipo di malattia, o si concentrano magari sulle patologie particolarmente complicate da comunicare. Penso per esempio a malattie di tipo oncologico, ma anche a quelle con risvolti sulla vita sessuale del paziente, argomenti questi che spesso, per pudore o altri motivi, il malato non vuole affrontare o è restio a farlo”.
Secondo Cortelazzo è fondamentale insegnare ai medici, fin dall’università, a saper distinguere la comunicazione ai pazienti dalla comunicazione tra specialisti e dare loro strumenti per poter comunicare in maniera comprensibile ai pazienti (anche in forma scritta). Il punto principale, nell’ottica del linguista, è rendere gli studenti di medicina consapevoli innanzitutto delle differenze che esistono tra il linguaggio abituale, specialistico, del medico e quello del malato.