MONDO SALUTE
In Salute. Disturbo bipolare: l'importanza della famiglia nel percorso terapeutico
“Talvolta si presume che i sintomi dei disordini mentali, come il disturbo bipolare, nascano da una sorta di debolezza o difetto caratteriale delle persone che ne sono affette. Tuttavia, questa presunzione non corrisponde a verità. Le persone affette da disturbo bipolare non scelgono di esserlo più di quanto lo facciano le persone colpite da diabete o da artrite. Il disturbo bipolare insorge quando accade qualcosa di ‘sbagliato’ nel cervello”. Le prime righe di La vita a due velocità, un guida pensata qualche anno fa per quanti soffrono di questa patologia e chi si occupa di loro, sono eloquenti e fanno emergere alcuni dei luoghi comuni che spesso interessano queste malattie.
Di disturbo bipolare non si parla molto, sebbene non si tratti di una patologia così poco diffusa dato che, stando ai dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità, interessa 45 milioni di persone in tutto il mondo. È una patologia dell’umore che si caratterizza per l’alternanza di episodi di depressione a episodi cosiddetti maniacali o ipomaniacali (forme cioè meno gravi). Più nello specifico durante la fase depressiva, il paziente perde interesse nei confronti della vita, pensa e agisce lentamente, può dormire più del consueto, può essere incapace di prendere decisioni e concentrarsi, ed essere colto da sensi di colpa e inutilità. Durante la fase maniacale invece chi soffre di disturbo bipolare avverte uno stato di euforia e la sensazione di avere enormi potenzialità personali, che nei casi più gravi possono sfociare anche in delirio di onnipotenza. La persona si sente piena di energia, tende a dormire poco e a parlare più del solito, si distrae facilmente, passa velocemente da un argomento all’altro e da un’attività all’altra, pur non riuscendo a portare a termine alcun progetto. Si trova in uno stato di agitazione mentale e fisica e può diventare irritabile e aggressiva quando viene infastidita. In base alla durata, alla frequenza e all’intensità dei sintomi vengono distinte diverse tipologie di disturbo bipolare.
Per capire quali possano essere le difficoltà che incontra un paziente con questa patologia, ma anche (e soprattutto) il ruolo che i caregivers – la famiglia in particolare – assumono in tutto il percorso che porta dalla comparsa dei primi sintomi fino alla definizione della terapia, abbiamo intervistato Renata dal Palù, medico che ricopre il ruolo di rappresentante direttivo dell’Associazione Minerva per la lotta contro il disturbo bipolare. Scopo dell’Associazione è proprio quello di preparare i familiari nell’assistenza e cura dei pazienti bipolari, sensibilizzare la popolazione sulla patologia, dare assistenza a chi si rivolge ai servizi locali territoriali e offrire visite ambulatoriali.
Con Dal Palù abbiamo dunque provato a porci anche dalla parte di chi assiste il malato, cercando di capire come si possano riconoscere i primi sintomi della malattia, come affrontare i pregiudizi che spesso vengono dall’esterno e come intraprendere un percorso terapeutico accanto a chi soffre di disturbo bipolare.
I primi campanelli d’allarme
“Il disturbo bipolare insorge dai 15 ai 35-40 anni. Fino a quest’età, infatti, il nostro cervello continua a modificarsi”. Dal Palù sottolinea che qualsiasi forte emozione può modificare le parti del nostro cervello che producono i neurormoni, responsabili della regolazione dell’umore. Spiega che nel disturbo bipolare, in particolare, i neurormoni più importanti sono la serotonina, l’adrenalina, la noradrenalina, la dopamina e l’acido gamma-amminobutirrico.
Come accorgersi, dunque, che un familiare potrebbe soffrire di disturbo bipolare? “Potrebbe accadere che un ragazzo con ottimi voti a scuola, perda ‘smalto’, diventi opaco, diminuisca il proprio profitto – osserva la responsabile dell’Associazione Minerva –. In un primo momento si potrebbe pensare che sia preso dai propri pensieri. È distratto, non riesce a star concentrato in classe. Fatica a stare con gli altri con la stessa capacità di dominio che aveva avuto fino a quel momento, si sente messo da parte, non controlla più la situazione. Tutto questo comincia a farlo diventare aggressivo, perde serenità e tranquillità, insulta, scappa di casa. Inizialmente si potrebbe pensare che siano comportamenti legati all’adolescenza, in realtà si noterà che peggiorano nel tempo. Chi lavora potrebbe iniziare ad accumulare assenze e, così, rischiare di perdere il proprio impiego. Dopo questo periodo di grande rabbia, tensione e malessere, comincia la fase depressiva che si manifesta con un grande rallentamento del pensiero e con una significativa riduzione della forza fisica: queste persone non parlano e se parlano si ha l’impressione che abbiano perso quella lucidità che avevano prima. Tutto questo si manifesta in una gradazione di espressioni. E anche per questo è difficile dire se ci si trova di fronte a un disturbo bipolare”.
Dal Palù aggiunge, inoltre, che chi soffre di disturbo bipolare tende a nascondere il proprio malessere ed è talora difficile capire quanto certi tipi di comportamento siano legati a un carattere molto estroverso, megalomanico e quanto invece siano dovuti alla malattia.
Lo stigma nei confronti del malato
“Esistono enormi stigmi nei confronti della malattia. Io spingo molto i familiari a dire che il figlio soffre di un disturbo dell’umore che si chiama disturbo bipolare, li esorto a parlarne. I familiari invece hanno timore a parlarne, perché se una persona ha un lavoro potrebbe perderlo, il datore di lavoro non si fida, possono verificarsi molte assenze. Le manifestazioni possono essere anche violente, incomprensibili, irrazionali, tanto che il disturbo è stato confuso con la schizofrenia, e dunque i genitori lo nascondono. Se un ragazzo vive in un condominio, per esempio, gli altri condomini possono avere paura. Lo stigma è legato al fatto che si ritiene che questa patologia non sia curabile, quindi quando una persona si comporta in un certo modo, si pensa che lo farà per tutta la vita”. In realtà, una volta individuata la terapia corretta, la dose minima efficace – e per far questo occorrono dai tre ai sei mesi – il paziente può tornare a condurre una vita normale, sottolinea Dal Palù, può riprendere dunque gli studi e il lavoro.
Il ruolo della famiglia nella “cura” del paziente
Da dove inizia, dunque, la terapia? Renata Dal Palù non esita, dalla famiglia. “Noi riteniamo che prima di tutto debbano essere preparati i familiari. I familiari non devono avvertire lo stigma nei confronti della malattia, devono parlarne tra di loro. Per questo li riuniamo insieme, così si conoscono e si creano legami e amicizie. È importante soprattutto che capiscano bene cos’è questa patologia, perché è diversa da altre malattie gravi, che c’è possibilità di cura. Imparano la farmacovigilanza, cioè a vigilare sui farmaci che vengono prescritti”. I familiari devono essere in grado di riconoscere quando un farmaco sta deprimendo il paziente, o lo sta mandando in eccitazione e avvertire immediatamente i medici. La farmacovigilanza è strettamente legata al monitoraggio del paziente: è necessario infatti sorvegliare chi soffre di disturbo bipolare, magari da dietro le quinte, specie nei casi gravi.
“Prepariamo i familiari a capire la gravità della malattia, a seconda dei gradi del disturbo, e a comprendere che il paziente può arrivare a un ottimo equilibrio”. Tornando a coltivare in questo modo le aspettative che il malato coltivava prima dell’insorgere della patologia. “Tutto è legato al fatto che il paziente continui a seguire la terapia, ridotta alla dose minima efficace, perché nel momento in cui non assume i farmaci tutto torna al punto di partenza. La terapia deve essere seguita per tutta la vita”. Una volta preparate le famiglie, quando dunque si ha la certezza che siano in grado di monitorare la situazione, i pazienti vengono seguiti da pischiatri specializzati nei disturbi dell’umore. Oltre a Padova, Renata dal Palù cita altri centri importanti in Italia per il trattamento del disturbo bipolare, tra questi il san Raffaele di Milano, il Centro Bini a Roma e l’Azienda ospedaliero-universitaria pisana.
Servizi di assistenza al paziente e alle famiglie, ancora molto da fare
Parlando di servizi di assistenza sul territorio rivolti ai pazienti e ai loro familiari, Renata Dal Palù esordisce partendo da alcune osservazioni sulla legge Basaglia: “Basaglia si era reso conto che molti dei malati erano perfettamente recuperabili e sono, appunto, i pazienti che soffrono di patologie dell’umore, alcune delle quali sono molto leggere. In generale, le patologie psichiatriche per l’8% sono malattie gravi (e tra queste si colloca il disturbo bipolare grave che ora sappiamo curare bene), ma per il 92% sono lievi: è il caso degli attacchi di panico, delle fobie, del disturbo ossessivo-compulsivo, per esempio, un tempo considerate gravi, ma oggi curabili. Basaglia si era reso conto di questa diversità. Riteneva che i manicomi non dovessero esistere, e dava grande importanza invece ai centri diurni, dove i pazienti vengono seguiti da medici, infermieri, psicoterapeuti e rimangono per parte della giornata”.
Il progetto suggerito da Franco Basaglia era fortemente improntato sulla territorialità, e la presa in carico del paziente psichiatrico era basata su strutture residenziali o semi-residenziali, ambulatori, per l’appunto centri diurni. “I centri diurni previsti da Basaglia – sottolinea tuttavia Renata dal Palù – sono stati avviati perché la legge 180 del 13 maggio 1978 lo impone. Sono stati creati, ma sono degli ‘aborti’”. Dal Palù osserva che con il passare del tempo queste strutture sono state aperte via via solo due giorni a settimana, per alcune ore, perché il personale scarseggia, dato che alla psichiatria vengono assegnati meno finanziamenti che a qualsiasi altra disciplina. “Il pubblico in questo caso è abbandonato e impotente. I familiari si sono trovati con i manicomi chiusi e con un carico enorme addosso: devono lavorare e fare quel che è necessario anche per gli altri figli e si trovano in una situazione drammatica”. Si parla addirittura di “nuove povertà”, dato che in certe situazioni le cure richiedono un elevato impegno economico e le famiglie si trovano in difficoltà.
“C’è la possibilità di avere visite (nelle strutture pubbliche, ndr), ma molto distanziate. Dopo la diagnosi di disturbo bipolare, occorrono invece visite ravvicinate per arrivare alla terapia corretta, anche settimanali”. Spiega Dal Palù, entrando più nel dettaglio: “Se la persona è depressa viene prescritto un antidepressivo, ma potrebbe essere eccessivo, potrebbe verificarsi il cosiddetto switch, per cui dalla depressione il paziente passa alla fase di maniacalità e dunque bisogna intervenire immediatamente, perché il farmaco deve essere ridotto o sospeso, magari passando a un farmaco opposto. Ci sono poi gli stabilizzatori dell’umore che sono molto importanti e bisogna dosarli bene. La terapia nelle persone che soffrono di disturbo bipolare grave va controllata frequentemente, ma non c’è la possibilità di fare queste visite. La patologia quasi peggiora con una terapia che non venga controllata e non sia adatta al paziente”. Per questo, secondo Renata Dal Palù, può accadere che le famiglie perdano fiducia nei servizi pubblici e se ne allontanino rivolgendosi alle cliniche private, che richiedono però un impegno economico significativo.