Foto: Nguyen Dang Hoang Nhu / Unsplash
L’attacco di panico viene solitamente descritto da chi lo ha vissuto come un’esperienza spaventosa e paralizzante, spesso accompagnata dalla paura di morire. Questo momento di crisi improvvisa e difficile da spiegare colpisce circa il 2-3% della popolazione ogni anno. In alcuni casi, però, può sfociare in un vero e proprio disturbo di panico, caratterizzato dalla comparsa frequente di attacchi di panico e, soprattutto, dalla paura di tali attacchi. Si tratta di una condizione talvolta invalidante che può spingere chi ne soffre a ricorrere a meccanismi di evitamento per tentare di eludere ogni situazione potenzialmente in grado di scatenare una nuova crisi.
In leggero anticipo rispetto alla giornata mondiale della salute mentale, che ricorre il 10 ottobre di ogni anno, abbiamo affrontato l’argomento in questo episodio di In salute con l’aiuto di Ezio Sanavio, già professore ordinario di psicologia clinica e di psicoterapia cognitiva e comportamentale all'università di Padova, già direttore della Scuola di specializzazione in psicologia della salute dello stesso ateneo e autore di un volume dal titolo: Attacchi e disturbo di panico (Hogrefe 2019).
“Evitiamo innanzitutto di confondere l’attacco di panico con il disturbo di panico”, specifica il professore. “L’attacco di panico è un’esperienza piuttosto comune i cui sintomi si presentano in quasi la metà della popolazione almeno una volta nella vita. Le prime ricerche epidemiologiche a riguardo risalgono agli anni Ottanta, periodo in cui è stata riscontrata la moda (in senso statistico, ndr) di questo fenomeno”.
Il disturbo di panico, invece, può insorgere come conseguenza dell’esperienza vissuta durante l’attacco di panico. Mentre alcune persone, una volta superata la crisi, se ne dimenticano e non ci fanno più caso, altre iniziano a vivere nella paura di un nuovo attacco. “In casi come questi, possono mettere in atto delle strategie protettive”, continua Sanavio, “come portarsi sempre dietro alcuni farmaci oppure evitare le situazioni che associano al rischio di una nuova crisi, riducendo, ad esempio, il numero degli allenamenti qualora l’attacco si fosse presentato in prima battuta durante una sessione sportiva o rifiutandosi di andare in autostrada o prendere l’aereo qualcosa la crisi fosse avvenuta in uno di quei luoghi.
Possiamo quindi affermare che, per certi versi, il disturbo di panico non è costruito sugli attacchi di panico in sé, bensì piuttosto sull'interpretazione che la persona conferisce all’attacco sperimentato e sulle modificazioni che apporta alla propria quotidianità come conseguenza”.
L’intervista al professor Sanavio. Montaggio di Barbara Paknazar
Vediamo invece quali sono le manifestazioni che caratterizzano l’attacco di panico vero e proprio. Come spiega Sanavio, si tratta di un episodio piuttosto breve, con una durata solitamente compresa tra i quattro e i venti minuti, che inizia all’improvviso e diventa progressivamente più intenso.
“L’attacco è caratterizzato da diversi tipi di attivazioni neurovegetative come la mancanza di respiro (la quale determina una sensazione di soffocamento), forti dolori gastrointestinali o un’improvvisa debolezza e senso di svenimento. Il pensiero che tipicamente (anche se non sempre) attanaglia le persone che provano un attacco di panico è la paura di morire. I sintomi appena descritti fanno temere il pericolo di essere incappati in un infarto, in un’emorragia cerebrale o in un’ischemia e sono solitamente caratterizzati da una generale sensazione di perdita di controllo”.
Sintomi intensi, improvvisi e, soprattutto, inspiegabili. Non è sempre facile, infatti, individuare precisamente l’origine di un attacco di panico.
“Dobbiamo immaginare l’attacco di panico come un’esperienza che può avere le origini più disparate, come uno starnuto, e che quindi, semplicemente, capita”, spiega Sanavio. “La causa scatenante può essere sia un evento o una situazione quotidiana banale, sia un avvenimento più grave e traumatico. Per molto tempo è rimasta diffusa l’idea, all’interno della comunità scientifica, che dietro l’attacco di panico si nascondesse qualche problema di natura psicologica particolarmente drammatico. Questo non è necessariamente vero, nonostante le persone con problemi di carattere psicologico di diversa gravità sperimentino talvolta tali attacchi di panico. Questi però, ripetiamolo, non possono essere considerati come sintomi del disturbo in questione, il quale avrebbe il suo corso a prescindere dalla presenza di panico”.
“Parlando invece del disturbo di panico vero e proprio, le principali linee guida per il trattamento clinico di tale problema individuano sostanzialmente tre possibilità di intervento”, prosegue il professore. “La prima scelta è una terapia psicologica. Se il disturbo viene approfondito sin dalle fasi iniziali della sua comparsa, possono bastare anche quattro o cinque incontri. In altri casi si può ricorrere a un trattamento farmacologico che preveda l’uso di farmaci antidepressivi oppure, in alternativa, alla frequentazione di gruppi di auto-aiuto, che esistono anche in Italia e la cui efficacia è stata comprovata”.
Ricordiamo inoltre che l’individuazione delle terapie più efficaci per questo e altri disturbi sono state al centro di una consensus conference – che, come osserva il professor Sanavio, rappresenta una delle forme più organizzate di dibattito scientifico – tenutasi a Padova lo scorso anno. Il documento finale prodotto dalla consensus conference propone alcuni modelli di riforma del nostro sistema sanitario con lo scopo di promuovere la conoscenza e l’uso dei trattamenti più efficaci e accessibili per i problemi psicologici che rientrano nella sfera dei disturbi di ansia e depressione.
Insomma, guarire dal disturbo di panico e riappropriarsi di una quotidianità serena è possibile, ma è ancora meglio scongiurare a monte il rischio di incappare in questo problema che, come abbiamo detto, dipende in gran parte dalla paura di sperimentare nuovi attacchi. In questi casi, un fattore discriminante è rappresentato dal modo in cui viene gestito un attacco di panico fin dalle sue prime manifestazioni.
“È più che comprensibile che in presenza di un attacco di panico molte persone si rechino al pronto soccorso di propria iniziativa o su insistenza delle persone che le circondano, poiché i sintomi sperimentati fanno talvolta temere un infarto”, racconta Sanavio. “Ai medici del pronto soccorso si consiglia solitamente di intervenire con degli esercizi di respirazione lenta (di circa dieci o dodici atti respiratori al minuto) e diaframmatica (in cui il paziente tiene la mano sulla propria pancia per percepirne il movimento) con la bocca chiusa. Questo modo di respirare consente al paziente di riprendere una normale funzionalità in dieci o venti minuti al massimo. Certo, lo stesso effetto si potrebbe ottenere anche con una dose di flebo, ma questo è sconsigliato per un motivo in particolare: la persona che riceve un trattamento medicamentoso in seguito a un attacco di panico porterà con sé il ricordo di un problema che richiede necessariamente l’ospedalizzazione o un intervento farmacologico. Al contrario, chi ha superato un attacco di panico eseguendo gli esercizi di respirazione appena descritti ricorderà quell’episodio come un momento di crisi da cui è possibile uscire anche senza un intervento medico”.