SCIENZA E RICERCA

SARS-CoV-2 in Italia già a settembre? Lo studio dell'Istituto tumori di Milano e i dubbi degli esperti

Riavvolgendo indietro il nastro della storia di Covid-19 ci accorgiamo che è da poco trascorso un anno dal giorno in cui fu ufficialmente identificato il primo caso di contagio da virus SARS-CoV-2: un documento del governo cinese, rivelato dal quotidiano South China Morning Post, parla di un uomo di 55 anni residente nella provincia dello Hubei e fissa la data al 17 novembre 2019. Come è noto ci volle un po’ di tempo prima che i medici potessero comprendere che erano di fronte a una nuova malattia e solo il 31 dicembre 2019 le autorità sanitarie cinesi comunicarono all’Organizzazione mondiale della sanità che nella città di Wuhan era in atto un un focolaio di casi di polmonite ad eziologia non nota.

Se partiamo da questi riferimenti temporali non stupisce che i risultati dello studio dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano e delle università di Milano e di Siena, pubblicato su Tumori Journal, secondo cui il nuovo coronavirus era presente in Italia già nei primi giorni di settembre 2019, abbiano suscitato parecchio clamore: non perché sia difficile immaginare che SARS-CoV-2 fosse nel nostro Paese da più tempo di quanto pensassimo, e a tal proposito fa quasi tenerezza l’ostinazione con cui a febbraio si cercava di individuare il paziente 0 che poteva aver introdotto il virus in Italia e infettato il famoso paziente 1 di Codogno, quanto perché delinea lo scenario di una circolazione silente, ma diffusa in maniera estesa tra la popolazione già in estate.

Lo studio, lo precisiamo subito e torneremo in seguito sull’argomento, ha però suscitato diverse perplessità tra molti esperti anche per altre ragioni che vanno dalle modalità di pubblicazione del lavoro, a precisi aspetti metodologici, primo tra tutti la tipologia di test utilizzata per il rilevamento degli anticorpi a SARS-CoV-2 - l'articolo che ne attesta la validazione è in attesa dell’esito della peer review - e la possibilità che non escluda in modo corretto fenomeni di cross-reattività con altri virus.

Ma procediamo con ordine. Nel luglio 2019 l’Istituto dei tumori di Milano dà avvio a una nuova fase del progetto Smile, una campagna di screening per l’identificazione precoce del cancro del polmone su un campione di circa 2 mila persone, di età compresa tra i 55 e i 75 anni, provenienti da tutta Italia e che fossero forti fumatori o avessero smesso di esserlo da meno di dieci anni. Il programma, che prevedeva la combinazione di Tac spirale toracica e analisi del sangue alla ricerca di marker tumorali, a marzo 2020 fu costretto all’interruzione a causa dello scoppio della pandemia. Da qui - ha spiegato Gabriella Sozzi, direttore della struttura complessa Genomica tumorale dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano - è nata l’idea di utilizzare quegli stessi campioni biologici, precedentemente raccolti, per studiare la frequenza dell’infezione da SARS-CoV-2 su persone che non avevano mai manifestato sintomi.

E arrivano le sorprese: 111 su 959 campioni conservati, raccolti nel periodo tra settembre 2019 e marzo 2020, risultano positivi alle IgG o alle IgM. Si tratta quindi dell'11,6% del totale e tra questi sono ben 87 quelli risalenti all’ultimo quadrimestre del 2019, tra cui 23 appartenenti a persone che, secondo lo studio, già nel mese di settembre avevano sviluppato gli anticorpi a SARS-CoV-2. A livello di distribuzione territoriale la metà dei casi è concentrata in Lombardia ma occorre precisare che più del 50% dei soggetti reclutati per il programma Smile proveniva proprio dall’area lombarda. Lo studio riporta la presenza di almeno un caso positivo in 13 regioni e, oltre alla Lombardia, tra i territori con un maggiore numero di campioni positivi figurano Lazio, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto e Toscana. Solo in 6 casi, di cui 4 ad ottobre, si è osservato lo sviluppo di anticorpi neutralizzanti. Un dato, hanno spiegato gli autori dello studio nel corso di una conferenza stampa online, che va interpretato sulla base del fatto che tutti i soggetti erano asintomatici e di conseguenza è meno frequente che si sviluppi una risposta immunitaria robusta, in grado di neutralizzare il virus in caso di una successiva esposizione.

Una prevalenza così elevata di anticorpi nel periodo tra settembre e marzo è però in contraddizione con i risultati dell’indagine di condotta tra il 25 maggio e il 15 luglio da Istat e ministero della Salute con l’obiettivo di scoprire quante persone nel nostro Paese avessero sviluppato gli anticorpi al nuovo coronavirus, anche in assenza di sintomi. Dai test effettuati su un campione rappresentativo di italiani è emerso che le persone che, entro quelle date, avevano già incontrato SARS-CoV-2 erano 1 milione e 482 mila, pari al 2,5% della popolazione totale con una punta del 7,5% in Lombardia. 

Un risultato che non collima in alcun modo con l'esito dello studio dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano. In conferenza stampa il professor Giovanni Apolone, direttore scientifico dell’INT e primo firmatario della ricerca, ha però puntualizzato che i due dati non possono essere confrontati perché quello di Istat è un campione costruito per avere una rilevanza statistica, mentre i soggetti del progetto Smile sono una parte di popolazione con caratteristiche ben precise. L'elemento rilevante dello studio, ha affermato Apolone, non è nella proporzione di persone positive agli anticorpi ma è nell’averne trovate in un periodo in cui non si immaginava che fosse possibile. 

C’è poi il nodo della strategia di pubblicazione: la rivista Tumori Journal che è dello stesso istituto lombardo e ha un impact factor (l’indice che, misurando il numero medio di citazioni ricevute dagli articoli pubblicati su una rivista scientifica, permette di valutare credibilità e autorevolezza delle riviste stesse) non elevato. In precedenza, è stato spiegato, il paper era stato sottoposto a due riviste ad alto fattore di impatto ma non era stato accettato a causa di “altre priorità di pubblicazione legate all’enorme quantità di articoli arrivati nell’ultimo periodo”. Ad ottobre i ricercatori hanno pensato di proporre il preprint a MedRxiv ricevendo una mail di risposta in cui si specificava che il paper inviato “appartiene a un piccolo numero di tipologie di articoli che si preferisce non pubblicare prima del processo di peer review”. A quel punto subentra la scelta di sottoporre il lavoro a Tumori Journal perché, ha affermato Apolone, “ritenevamo prioritario poterlo mettere in condivisione”. E qui però balza subito all'occhio un’anomalia: la data di consegna e di accettazione dell’articolo coincidono, come hanno fatto notare in rete molti ricercatori e divulgatori.

Ma l'aspetto su cui si è maggiormente concentrata l’attenzione degli esperti che hanno accolto tiepidamente i risultati di questo studio riguarda la tipologia di test con cui si è andati alla ricerca degli anticorpi a SARS-CoV-2 e, in particolare, il sospetto che gli anticorpi individuati siano in realtà conseguenti all’esposizione con i comuni coronavirus del raffreddore. Gli studi che dimostrano la possibilità di una cross-reattività sono ormai diversi e dimostrano che alcune persone hanno un’immunità preesistente. 

Francois Balloux, direttore dell’UCL Genetics Institute, su Twitter ha ricordato che allo stato attuale gli studi che hanno analizzato migliaia di sequenze del genoma di SARS-CoV-2 individuano tra i mesi di ottobre e novembre in Cina il momento in cui il virus è passato all'uomo, con una successiva rapida diffusione nel continente europeo. Balloux scrive inoltre che "lo studio potrebbe aver rilevato una reattività crociata con OC43 e HKU1, coronavirus endemici che causano il normale raffreddore e che hanno un'omologia abbastanza elevata in alcune regioni della proteina spike".

Della stessa opinione è Antonella Viola, immunologa dell'università di Padova, che in un'intervista realizzata per Il Bo Live dalla collega Monica Panetto ha affermato che "ci sono tante pubblicazioni che ci dicono che i coronavirus inducono una preimmunità anche a SARS-CoV-2 e più o meno la percentuale è proprio intorno al 10%, sia con risposte di tipo T, sia anticorpi che crossreagiscono. Questo studio ha grandissimi problemi metodologici perché ha usato un tipo di test che non è validato, il lavoro attraverso cui dovrebbe avvenire la validazione è sotto forma di un preprint che non è stato ancora approvato dalla comunità scientifica". Una posizione analoga a quella di Enrico Bucci, professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia, che su Facebook scrive che il saggio con cui si è andati a cercare gli anticorpi a SARS-CoV-2 "risulta eseguito solo dagli autori dello studio, non essendo ancora stato adottato da altri gruppi o validato in altro modo".

Valentina Bollati, docente dell’università di Milano e coautrice dello studio, ha spiegato perché sono stati esclusi kit che fossero già stati validati e si è preferito adottarne uno ex novo: “Quando c’è stata l’esplosione del Covid a marzo il mio primo pensiero è andato a quello che immaginavo potesse essere il substrato di persone che si stavano infettando ma di cui non c’era traccia, perché all’epoca non eravamo in grado di effettuare screening sui soggetti asintomatici. Per questo motivo abbiamo subito proposto all’università di Milano di provare ad indagare, attraverso i test sierologici, quale fosse la popolazione asintomatica tra i lavoratori dell’ateneo. Ci siamo accorti che gli strumenti commerciali più diffusi erano perfetti per il malato, ma andavano in crisi con gli asintomatici perché spesso sono settati con il plasma o il siero della persona malata. Dopo aver provato tanti kit commerciali e aver riscontrato queste criticità abbiamo cominciato a collaborare con il team del professor Montomoli dell’Università di Siena per capire se il metodo che proponeva potesse essere adatto alle nostre necessità”.

Il test utilizzato - è poi entrato nel dettaglio il professor Emanuele Montomoli, docente di Igiene all’università di Siena e fondatore di VisMederi, una spin-off universitaria nata nel 2009 per lo sviluppo di metodi di sieromonitoraggio - appartiene alla tipologia dei test ELISA, nota sin dagli anni ’60.

Dovevamo scegliere un antigene verso il quale questi anticorpi erano rivolti e studiando il SARS-CoV-2 l’antigene naturale era la proteina Spike e siccome la maggior parte delle cross-reazioni sono verso la parte della proteina S2 e, in misura minore anche verso S1, ci siamo concentrati verso una parte ancora più specifica di S1, il sito RDB, receptor binding domain. Quando abbiamo messo a punto questo test ELISA non erano ancora disponibili in commercio kit che contenevano solo l’RBD, c'erano solo kit che contenevano tutta la proteina S o al massimo la proteina S1”. Abbiamo fatto sviluppare l’RBD dall'azienda cinese Sino Biological che produce questo antigene su diverse piattaforme e noi abbiamo scelto quella prodotta su cellule di mammifero in modo che fosse altamente specifico".

“VisMederi - ha proseguito il professor Montomoli - è uno dei cinque laboratori all'interno del network Cepi accreditati per valutare la risposta immunogenica dei vaccini contro SARS-CoV-2 e dai nostri laboratori passano le prove di immunogenicità di 14 aziende che stanno partecipando alle prove sui vaccini. Naturalmente occorreva validare il test che abbiamo messo a punto per il nostro studio e lo abbiamo fatto seguito le linee guide dell'International Conference Harmonization. Inoltre, proprio per escludere la possibilità di una cross-reattività, abbiamo comprato una ventina di sieri standard da un’azienda statunitense che vende sieri certificati di pazienti con una certa infezione e abbiamo testato quelli caratterizzati da uno dei quattro coronavirus del raffreddore con il nostro Elisa RBD. L'esito è sempre stato negativo. Lo stesso è accaduto con nove ceppi influenzali". 

Tuttavia, fa notare sempre Enrico Bucci su Facebook, oltre ad essere noto che gli anticorpi di altri coronavirus reagiscono in una certa misura anche contro il receptor-binding domain, "i dati relativi al controllo di specificità non sono presenti nè nel preprint che descrive il saggio nè nel lavoro che pretende di aver provato la circolazione precoce del virus in Italia". E, in effetti, analizzando il preprint si legge (a pagina 5) che lo studio costituisce "una ricerca preliminare per lo sviluppo di un ELISA in grado di semi-quantificare gli anticorpi umani anti-SARS-CoV-2 in modo specifico e ripetibile. Il prossimo passo sarà convalidare completamente questi ELISA secondo i criteri stabiliti dal Consiglio internazionale per l'armonizzazione dei requisiti tecnici per i prodotti farmaceutici per uso umano e per analizzare le prestazioni e la specificità di questi test con specifici campioni di siero umano che sono altamente positivi nei confronti di diversi HCoV". Dunque, per il momento, i dati che certificano la specificità del test nei confronti degli anticorpi per gli altri coronavirus non sembrano essere ancora stati integrati nel preprint.

E, ha puntualizzato Antonella Viola a Il Bo Live, "anche se l'articolo scientifico relativo al test utilizzato venisse approvato, per affermare che il nuovo coronavirus era presente in Italia già a settembre bisognerebbe come minimo confrontare tre o quattro kit ELISA diversi per andare a vedere se i risultati ottenuti con uno sono riproducibili con gli altri". 

In conclusione le evidenze fornite dal paper pubblicato su Tumori Journal non appaiono sufficientemente solide per affermare che SARS-CoV-2 circolava nel nostro Paese già dall'estate del 2019, sebbene sia ormai assodato che il virus ha fatto ingresso in Italia ben prima del momento in cui è stato individuato per la prima volta. Lo studio di Vo' con l'elevata percentuale di persone positive riscontrate, tra cui molti asintomatici, ci ha fatto comprendere come l'infezione fosse, già nella fase iniziale, molto più estesa di quanto non immaginassimo. Alcune analisi effettuate sulle acque di scarico di alcune città del Nord Italia hanno individuato tracce di SARS-CoV-2 nel mese di dicembre e in Francia, dove il primo caso ufficiale di coronavirus era stato inizialmente registrato il 24 gennaio, un gruppo di medici ha analizzato i campioni di saliva di alcuni pazienti ricoverati per polmonite tra la fine del 2019 e l'inizio del 2020 e ha scoperto che uno di loro era stato contagiato. Un approfondimento di Francesco Suman, realizzato già a marzo per Il Bo Live, illustra tutti i dati che portano a ritenere che il SARS-CoV-2 fosse presente in Lombardia già il 1° gennaio 2020. E l'esperienza che abbiamo finora vissuto ci ha fatto anche comprendere la capacità del virus di muoversi sottotraccia, prima di esplodere in focolai riconoscibili e di portare al sovraccarico degli ospedali. 

"E’ certamente possibile che il virus fosse in Europa e in Italia prima della data che abbiamo definito - ha concluso l'immunologa Antonella Viola - però non è questo studio a fornirci una prova".

Forse però il lavoro nato dalla collaborazione tra l'Istituto nazionale dei tumori e le università di Milano e Siena potrà dare impulso a nuove indagini che aiutino a fare maggiore chiarezza sulla data di inizio e sulla diffusione della pandemia. "E' un segnale che abbiamo lanciato alla comunità scientifica e laica, abbiamo avviato delle collaborazioni con altri istituti e ricercatori e credo che, sia in Italia che all'estero, ci siano altri gruppi che hanno nei propri istituti la possibilità di andare a verificare questo fenomeno", ha affermato il professor Giovanni Apolone confermando che il suo team di ricerca "è stato contattato dall'Organizzazione mondiale della sanità a cui è stata la massima disponibilità in termini di metodologie, percorsi, test e dati". 

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012