CULTURA

La scienza ambivalente di "Quando abbiamo smesso di capire il mondo"

Nella cinquina finalista al Premio Galileo troviamo anche Quando abbiamo smesso di capire il mondo, di Benjamìn Labatut, edito nel 2021 da Adelphi nella collana Fabula. Dalle prime pagine, quelle dedicate alla storia del blu di Prussia, si potrebbe pensare di essere al cospetto di un saggio sulla chimica, ma così non è: non solo il tema si allontana da questa scienza, ma non siamo nemmeno di fronte a un saggio. Quando abbiamo smesso di capire il mondo è una raccolta che prende per mano il lettore e lo porta a "sentire" le nozioni, più che a capirle, una sorta di romanzo a tema saggistico. Più che un libro sulla chimica e sulla fisica, o sulla storia della fisica, è una raccolta di storie sull'epifania, su quelle connessioni impalpabili che si instaurano tra pensiero e realtà esteriore, e che portano, a volte per caso, al progresso scientifico. Si tratta, come dice il suo autore, di un'opera di finzione basata su fatti reali. Fatti che vengono interpretati in modo ardito: tutti sappiamo, per esempio, che Schrödinger era un grande seduttore, è un fatto documentato, ma pochi si sono spinti a immaginare che i suoi pensieri a sfondo sessuale potessero vedere come protagonista la figlia sedicenne del suo medico al sanatorio di Arosa, dove era ricoverato.

Labatut si inserisce efficacemente nei vuoti biografici di questi grandi personaggi per costruire un racconto a incastro che è un po' la risposta al dramma della scoperta di un mondo instabile, un mondo che forse non abbiamo davvero smesso di capire, ma che ogni giorno ci mette di fronte alla sfida, stimolante e terrorizzante allo stesso tempo, di dargli un senso. Il meccanismo narrativo non ha falle, i rapporti tra i personaggi sono più matematici delle equazioni che cercano di risolvere, e ci restituisce la visione di uno scrittore demiurgo che va a riappropriarsi dell'ordine delle cose, dopo aver sistemato il caos che quei disgraziati dei suoi personaggi hanno contribuito a creare.

Del resto quando Labatut li ha scelti sapeva a cosa andava incontro: Fritz Haber, Karl Schwarzschild, Alexander Grothendieck, Erwin Schrödinger, Werner Heisenberg e Louis de Broglie non erano certo famosi per la loro stabilità. Forse anche per questo il nome di Einstein, che ha avuto un ruolo centrale nel duello della meccanica quantistica, è solo accennato: aveva una personalità troppo equilibrata, al netto degli aneddoti sulle sue stravaganze, per comparire in un libro che segue il filo conduttore della maledizione del genio, che culmina nell'epilogo de Il giardiniere notturno, nel quale il protagonista si rallegra di aver abbandonato la matematica per passare le sue notti a occuparsi di un giardino. Dalle storie raccolte nel libro traspare una certa sfiducia nei confronti della scienza, o per meglio dire nel modo in cui gli esseri umani la gestiscono.

Nell'ultima fase della sua vita , il suo punto di vista si era fatto così distante che poteva cogliere solo la totalità. Della sua personalità non rimanevano che brandelli, fili sminuzzati

Scrive Labatut di Grothendieck.

Questa malinconia sottesa è un po' straniante, perché in effetti siamo abituati a individuare più facilmente il ruolo positivo che la scienza ha avuto nelle vicende umane, e più o meno inconsciamente rimuoviamo dalla nostra memoria i danni che, per fortuna in percentuale minore, ha causato nel mondo. Non a caso all'inizio del libro troviamo la storia di Fritz Haber, che insieme a Bosch scoprì un modo per procedere alla sintesi industriale dell'ammoniaca, che veniva utilizzata per i concimi che a loro volta permettevano il nutrimento e quindi la sopravvivenza di milioni di persone. Questo portò a un'esplosione demografica per cui Haber meritò il premio Nobel (si disse che aveva fatto il pane dall'aria), ma poi, durante la Prima Guerra mondiale, il suo nome si legò a ben altro: a lui si deve l'uso dei gas al cloro nelle trincee e quindi la morte di migliaia di uomini. E così un premio Nobel diventa criminale di guerra, la stessa mente partorisce salvezza e distruzione, come se la mera scoperta contasse di più della vita (nel libro di Labatut l'ago della bilancia del dilemma etico legato alla scienza pende verso il pessimismo).

In quello che potremmo definire un romanzo a tema saggistico, l'autore ci restituisce la sua personale visione del genio e della scienza, con uno stile coinvolgente e un ritmo che, pagina dopo pagina si fa più serrato. Molte sono le licenze poetiche, a partire dalla copertina italiana, che rappresenta l'opera di Yves Klein Barbara (ANT 113), e che quindi utilizza il blu che prende il nome dal suo autore, e non il blu di Prussia raccontato nel primo capitolo del libro. Quando abbiamo smesso di capire il mondo è un'opera interessante che può arrivare al cuore, a patto di scindere i contenuti più divulgativi dalla pura invenzione letteraria, usata da Labatut per sottolineare l'ambivalenza della scienza e la maledizione del genio. Il messaggio che arriva forte e chiaro è che la scintilla che fa accendere il genio non sta nel semplice ragionamento e nell'analisi della realtà, ma in una sorta di epifania metafisica e inspiegabile, che rimanda un po' al film Arrival di Denis Villeneuve, tratto da un racconto di Ted Chiang: la protagonista è una linguista che deve imparare a comprendere la lingua che utilizzano gli alieni, per poter comunicare con loro e capire che intenzioni hanno. Questa comprensione non nasce (solo) dalla competenza, ma scaturisce da lampi e immagini afferrati al momento giusto nel profondo della mente, che secondo Labatut può generare indifferentemente salvezza e distruzione.

Quello che la notte prima aveva scambiato per il guizzo intellettuale più importante della sua vita gli sembrò il vaniloquio di un fisico dilettante, un triste episodio di megalomania Benjamìn Labatut

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