SCIENZA E RICERCA

L’ecocidio dell’isola di Pasqua potrebbe non essere mai avvenuto

Secondo una certa visione del mondo, noi umani siamo intrinsecamente incapaci di vivere in armonia con (cioè, non distruggendo) l’ambiente naturale. E il disastro ambientale causato dall’odierno modello di sviluppo industriale capitalistico, disastro di cui le stesse società umane stanno pagando il prezzo, non ne è l’unica prova. Uno degli esempi di “ecocidio” – e conseguente caduta di una civiltà – più presenti nell’immaginario collettivo è quello dell’Isola di Pasqua.

Rapa Nui – questo il nome dato all’isola dai suoi abitanti originari – è una piccola isola (grande circa come due terzi dell’isola d’Elba) nell’oceano Pacifico, e uno dei più remoti luoghi abitati da popolazioni umane. La colonizzazione di questo fazzoletto di terra al largo delle coste del Cile risale a circa mille anni fa, quando alcuni esploratori provenienti dalla Polinesia si insediarono sulle sue coste dando vita a una civiltà tanto unica quanto, ancora oggi, misteriosa.

La vulgata – popolarizzata anche da autori di spessore come Jared Diamond, nella sua famosa opera “Collasso” – narra che questa civiltà, costruttrice di opere mastodontiche come i moai, abbia raggiunto il proprio picco demografico sfruttando il territorio e le risorse dell’isola fino a ben oltre le capacità di rigenerazione dell’ecosistema locale, causando così il proprio annientamento per carestia. Quando, nel XVIII secolo, l’isola venne (ri)scoperta dagli esploratori europei, la ridotta dimensione della popolazione locale (meno di 3.000 abitanti) suggerì che si fosse di fronte a quel che restava di una civiltà una volta florida ma ormai andata in rovina.

Questa narrazione è stata a lungo la ricostruzione storica più diffusa, sanzionata anche dalla ricerca scientifica. Negli scorsi decenni, infatti, diversi studi si sono cimentati nel calcolare la “capacità portante” (carrying capacity, cioè la capacità di un ambiente di sostentare un certo numero di individui) del sistema ecologico dell’isola analizzando i resti delle aree anticamente coltivate.

L’isola, di origine vulcanica, presenta un suolo povero di nutrienti e dunque poco produttivo: perciò, non è mai stata particolarmente adatta all’attività agricola. Nonostante ciò, si stima che gli antichi abitanti dell’isola traessero circa metà del proprio fabbisogno alimentare proprio dalle attività agricole (si coltivavano soprattutto patate dolci e, in misura minore, anche banane, taro – un tubero amidaceo simile alla patata – e canne da zucchero). Se gli abitanti di Rapa Nui riuscivano a ottenere raccolti soddisfacenti era grazie ad una specifica tecnica agricola utilizzata sull’isola (rock gardening), consistente nell’utilizzare rocce di diverse grandezze e formati da porre al di sopra o subito sotto la superficie del terreno per mantenerne più costante la temperatura e per ridurre la dispersione di nutrienti come azoto, fosforo e potassio, particolarmente carenti in quel territorio.

Per via dell’importanza che le attività agricole sembrano aver avuto nella sussistenza della popolazione dell’isola prima dell’arrivo dei coloni europei, diversi studi hanno concentrato la loro attenzione sulla quantificazione dell’estensione dei terreni coltivati attraverso la tecnica del rock gardening (di cui è possibile individuare le vestigia sia attraverso immagini satellitari che attraverso attività di ricerca archeologica) per calcolare la probabile capacità portante dell’isola e, di conseguenza, avanzare una stima dell’estensione demografica della popolazione nel momento di massima prosperità.

Secondo uno di questi studi, pubblicato nel 2013, le aree in cui si praticava il rock gardening erano estese tra circa 5 e 21 km2 (su un’area totale di circa 163 km2). Sulla base di questo dato, si era stimato che l’ecosistema dell’isola potesse sostentare circa 17.000 persone, prima dell’ipotetico collasso ecologico causato da una cattiva gestione delle risorse naturali disponibili.

Una ricerca da poco pubblicata sulla rivista scientifica Science Advances e condotta da un gruppo di ricercatori della Columbia University di New York mette in discussione questa ricostruzione fornendo una nuova e più accurata stima della reale estensione del rock gardening sull’isola di Pasqua prima del contatto con gli europei. Combinando l’analisi di immagini satellitari con i dati archeologici, i ricercatori statunitensi hanno calcolato che le aree coltivate coprissero solo 0,76 km2 in tutta l’isola. Di conseguenza, anche l’ipotetica capacità portante andrebbe molto ridimensionata: gli autori calcolano che la popolazione non avrebbe potuto superare un massimo di circa 3.000 abitanti, un numero non molto più alto di quello constatato a fine Settecento dai primi osservatori europei.

Ecocidio?

Se l’ipotesi dei ricercatori fosse corretta – e, in effetti, sono diversi gli studi che puntano in una simile direzione – questo significherebbe che la più accreditata ricostruzione della tragica storia degli abitanti di Rapa Nui è sbagliata. Sull’isola di Pasqua, insomma, non si sarebbe consumato un ecocidio causato da una popolazione avida di risorse e troppo poco lungimirante – una tragedia dei beni comuni, come avrebbe detto un famoso ecologo – ma, al contrario, un sorprendente esempio di sostenibilità e resilienza.

Se, infatti, la popolazione dell’isola non ha mai superato la soglia dei 3.000 abitanti per via dei vincoli fisici ed ecologici dettati dalla complessità delle condizioni ambientali e dalla povertà di risorse, la storia si ribalta e questa popolazione diviene un esempio paradigmatico di come mantenere, per almeno mille anni, un delicato equilibrio con l’ambiente nel quale si vive e con la comunità ecologica di cui si fa parte.

Nonostante la complessità e le limitazioni tecniche di questo genere di studio, i ricercatori ritengono che i risultati riportati in questo articolo «si aggiungono a un corpus crescente di ricerche empiriche che mostrano come Rapa Nui rappresenti un ottimo esempio di come una popolazione isolata che disponeva di risorse limitate abbia saputo creare un sistema di sussistenza sostenibile, mantenendo stabile la propria popolazione all’interno dei limiti dettati dalla capacità portante dell’ambiente».

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