SCIENZA E RICERCA
Natura, l'immagine che (non) ti aspetti

La rappresentazione del Dodo di Mauritius, ricostruito dal naturalista inglese Richard Owen basandosi su un dipinto del fiammingo Roelant Savery. Foto: Science Photo Library
Se doveste rappresentare Frankenstein, il Dna o l'evoluzione della specie, a quale modello vi rifareste? Con ogni probabilità vi verrebbero alla mente il volto pesantemente truccato dell'attore Boris Karloff del celebre film di James Whale del 1931, la doppia elica di Watson e Crick, e la marcia del progresso. Sono immagini talmente popolari da essere diventate delle icone. Ma vi siete mai chiesti quando e come sono nate, chi le ha realizzate e perché hanno un impatto così significativo nella nostra cultura?
A dare una risposta a queste domande ci hanno pensato Massimiano Bucchi e Elena Canadelli nel loro libro Nature immaginate. Immagini che hanno cambiato il nostro modo di vedere la natura (Aboca edizioni). Gli autori hanno selezionato una cinquantina di raffigurazioni di matrice scientifica che hanno goduto e continuano a godere di ottima fortuna “popolare”. Si spazia dalla biologia alla medicina, dalla fisica alla matematica, passando per la chimica e l'astronomia. E le sorprese non mancano. Perché si scopre come molte immagini non siano state realizzate da scienziati, risentano dell'influenza di linguaggi espressivi apparentemente lontani (la pittura, il cinema), o come certe visualizzazioni abbiano finito per diventare 'convenzioni metonimiche', parti per indicare il tutto. È il caso della doppia elica del Dna. Fu disegnata da Odile Speed, moglie di Francis Crick, disegnatrice di abiti e pittrice di nudi per professione, che si basò su di uno schizzo del marito. Abbozzata con mezzi semplici e in tempi rapidi per accompagnare la pubblicazione dell'articolo degli scopritori della struttura dell'acido desossiribonucleico nel numero di “Nature” del 25 aprile 1953, da allora è divenuta una sorta di “feticcio”: la doppia elica è oramai per tutti il Dna.
“Tendiamo a pensare che un'immagine, in quanto tale, sia più semplice da capire e da riconoscere di un testo, ma non è così – spiega Massimiano Bucchi, professore di sociologia della scienza e comunicazione della scienza all'università di Trento –. Si pensi a Frankenstein: per noi è il mostro, ma nel romanzo della scrittrice Mary Shelley è lo scienziato. Dovremmo quindi parlare di 'mostro di Frankenstein', invece nel tempo l'immagine della creatura si è sovrapposta a quella del suo creatore”.
Decifrare le immagini richiede competenza, tant'è che oggi, nell'epoca della comunicazione digitale, che sottopone costantemente alla nostra attenzione foto e video, si comincia a parlare di “alfabetismo visuale”. Capita però, nostro malgrado, di imbattersi in immagini che continuano a circolare nonostante siano sbagliate. Ne è una testimonianza il dodo, un esemplare di uccello avvistato per l'ultima volta a Mauritius nel 1662. Due secoli dopo il naturalista inglese Richard Owen lo ricostruì basandosi su un quadro del fiammingo Roelant Savery (1576-1639), ma di lì a tre anni si accorse che quell'immagine era errata. Un tempo sufficiente, tuttavia, perché entrasse nell'immaginario collettivo e persino in letteratura. Lewis Carroll se ne serve per fare una caricatura di se stesso in Alice nel paese delle meraviglie.
Un'altra immagine che ritorna a sproposito, a rappresentare l'evoluzione della specie, è la cosiddetta Marcia del progresso. Realizzata da Rudolph Franz Zallinger (e non da Darwin) per il libro del paleoantropologo Francis Clark Howell “Early Man” del 1965, raffigura 15 ominidi in marcia da sinistra verso destra. Le didascalie accompagnatorie, che descrivevano il processo evolutivo e le ramificazioni, col tempo sono state abbandonate a favore di una sequenza lineare che ci presenta il progresso umano come un'ascesa verso la perfezione.
L'inattendibilità di talune immagini si scontra – verrebbe da dire – con la tendenza a conferire un carattere di verità a quanto si vede, soprattutto se non si conosce a fondo la materia. Come però osserva Elena Canadelli, ricercatrice in storia della scienza all'università di Padova, “un'immagine non è mai oggettiva, ma fornisce un'interpretazione, frutto di una stratificazione di significati. Questo vale sia all'interno della pratica scientifica, sia all'esterno quando, a maggior ragione, l'immagine comincia a circolare e diventa quasi un oggetto autonomo rispetto al suo contesto originario. Questo è uno degli aspetti più affascinanti e 'ingannevoli' dell'immagine e di quella scientifica in particolare”.
A favorire la diffusione di talune rappresentazioni contribuisce, da sempre, anche la loro qualità estetica. Il biologo contemporaneo Richard Dawkins, intervistato in merito alla doppia elica di Watson e Crick, ha affermato: “Il loro modello era troppo bello per non essere vero”. La sensibilità estetica di Galileo, valorizzata dalla sua capacità di disegnare e di saper applicare il chiaroscuro, è stata fondamentale per comprendere le scabrosità della superficie lunare. Eppure, non era stato il primo a compiere delle osservazioni della luna. Come rileva Canadelli, “La bellezza dell'immagine conta e ha sempre contato, non solo adesso con il dominio delle infografiche o dell'illustrazione che ricerca l'eleganza, ma anche per gli scienziati stessi. E oggi più che mai l'aspetto estetico è centrale nelle pubblicazioni di settore”.
Le forza comunicativa ed evocativa delle immagini deve molto anche al riadattamento in nuovi contesti. La ben nota equazione di Einstein, E=mc2, ha ispirato centinaia di artisti, opere, canzoni pop, vignette umoristiche e campagne pubblicitarie. I cristalli di neve dalla forma esagonale, come quelli fotografati da Wilson Bentley fra Otto e Novecento, grazie all'aiuto di un microscopio, ricompaiono in film come The Nightmare before Christmas e Frozen. La classica forma dell'onda si deve al celebre dipinto del giapponese Hokusai e ad essa l'Unesco si sarebbe ispirata per il cartello con cui viene segnalato il pericolo di tsunami.
L'elenco delle curiosità potrebbe continuare. D'altra parte, solo a sfogliare il volume di Bucchi e Canadelli, non si può non esclamare “questa immagine l'ho già vista!”.
Elena Trentin