Alla scoperta del tatto con “La pelle che pensa” di Marta Paterlini
«Quando qualcuno ti ha toccato per l’ultima volta? Quando tu hai toccato qualcuno per l’ultima volta?» Due domande semplici, quasi disarmanti, sono quelle con cui si apre il libro La pelle che pensa: Il tatto come linguaggio universale, tra filosofia, neuroscienze e tabù sociali di Marta Paterlini. L’autrice è una giornalista scientifica e neuroscienziata di formazione, e di domande ne pone molte lungo le quasi 300 pagine del saggio appena uscito per Codice edizioni, in cui cerca di dare a ognuna una risposta chiara e argomentata. Questo motore di curiosità l’ha spinta a partire per un viaggio nella biologia e nella filosofia del tatto – il più antico e il più trascurato dei nostri sensi – che è insieme esplorazione scientifica e meditazione poetica sui legami umani.
Per Paterlini, la pelle non è un semplice involucro ma un organo pensante, una frontiera sensibile che ci connette al mondo esterno e alle altre persone. E il libro procede esattamente così: come un contatto continuo fra saperi, in cui le neuroscienze incontrano l’antropologia, la robotica e l’arte. Nei capitoli si alternano dati, immagini e tante storie di chi ha fatto ricerca sul tatto: dalla descrizione dei recettori cutanei o meccanocettori (come i corpuscoli di Merkel, quelli di Meissner o di Pacini) che trasformano una pressione o una carezza in impulsi elettrici, ai più recenti esperimenti sul modo in cui il cervello riesce a tradurre tutti i segnali che riceve dal nostro contatto con l’esterno in emozioni e significati.
Giovani scimmie e fibre nervose C-tattili
Per farci capire il ruolo fondamentale del tocco, del tatto e l’effetto che hanno sulla nostra pelle, e quindi sul nostro corpo, Paterlini cita le parole del neuroscienziato Francis McGlone (professore alla Liverpool John Moores University): «La dimensione del tatto non è roba da alternativi fricchettoni, non è solo un’indulgenza sentimentale, ma una “necessità biologica”». E non è ovviamente una necessità solo umana, come dimostrano i famosi esperimenti condotti negli anni Cinquanta del secolo scorso dallo psicologo Harry Harlow sulle scimmie neonate. Gli animali preferivano “madri artificiali” di stoffa morbida anche se non davano latte a quelle di ferro che però fornivano cibo, segno che il bisogno di contatto fisico è più forte della fame.
Sempre McGlone spiega che la scelta apparentemente controintuitiva delle scimmiette avviene perché il tatto cosiddetto “affettivo” (cioè il piacere associato a un tocco gentile) stimola le fibre nervose C-tattili, fondamentali per il benessere e le relazioni sociali. Il tatto sarebbe dunque una sorta di “vitamina T” che sostiene il cervello sociale e resta attivo per tutta la vita. Una curiosità su McGlone è che, pur essendo uno dei massimi esperti in materia, nel 2019 ha vinto anche un premio bizzarro che ha accettato con piacere e molto senso dell’umorismo: si trattava infatti dell’IgNobel per la pace per le sue ricerche sul prurito.
Un altro esempio raccontato ne La pelle che pensa sono gli studi dell’Università di Göteborg (in Svezia), dove un gruppo di ricerca in neuroscienze e psicologia ha dimostrato che una carezza con una certa velocità (circa 3 centimetri al secondo) attiva in modo ottimale le fibre nervose C-tattili favorendo il rilascio di ossitocina, il cosiddetto ormone dell’amore e della fiducia. È lo stesso meccanismo che spiega perché vari studi hanno evidenziato come il contatto umano riduca lo stress, abbassi la frequenza cardiaca e migliori persino le nostre difese immunitarie.
Dalle mamme-canguro agli orfanotrofi da incubo
Ma Paterlini non si limita agli esperimenti condotti nei laboratori: il viaggio alla scoperta del tatto passa anche attraverso i reparti ospedalieri con le incubatrici neonatali della “marsupio terapia” nota anche come Kangaroo Mother Care. Questa tecnica è nata nel 1978 a Bogotà in Colombia come alternativa all’incubatrice per neonati prematuri: le madri tenevano i bimbi nudi a contatto con la loro pelle, tra i seni, per regolarne la temperatura corporea e favorire l’allattamento.
Studi successivi hanno dimostrato che questo contatto diretto riduce lo stress, migliora il sonno, la crescita e il legame madre-figlio. La neuroscienziata Ruth Feldman, con l’Israel Kangaroo Care Project, ha seguito per 20 anni bambini prematuri trattati con la KMC, scoprendo che da in età adulta presentavano migliori capacità cognitive, una maggiore stabilità emotiva e anche le loro madri erano genitori più sensibili.
Un altro esempio raccontato nel libro ci riporta al 1989 quando, dopo la caduta del regime dittatoriale di Ceaușescu, il mondo scoprì l’orrore degli orfanotrofi rumeni dove migliaia di bambini cresciuti senza contatto umano mostravano gravi danni fisici e psichici. Il Bucharest Early Intervention Project, condotto dagli psicologi Nathan Fox, Charles Nelson e Charles Zeanah, seguì 136 bambini istituzionalizzati, dimostrando che la mancanza di stimoli e affetto comprometteva sviluppo cerebrale, emotivo e cognitivo. I piccoli affidati a famiglie prima dei due anni mostrarono invece un sorprendente recupero, confermando l’importanza del tocco e del contatto umano nello sviluppo precoce.
Le nuove frontiere della ricerca
Infine Paterlini racconta anche le nuove frontiere della ricerca, come la pelle artificiale sviluppata da Calogero Maria Oddo, professore all’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa: si tratta di una matrice polimerica flessibile dotata di sensori fotonici capaci di rilevare con estrema precisione pressione e deformazioni grazie a variazioni nella luce riflessa. I dati vengono interpretati da algoritmi di intelligenza artificiale, che permettono al sistema di imparare e migliorare la propria sensibilità tattile. Questa tecnologia, ispirata ai recettori umani come i corpuscoli di Ruffini, ha applicazioni nella prostetica, nella chirurgia robotica e soprattutto nella robotica collaborativa, dove consente ai robot di interagire in modo sicuro e delicato con persone e oggetti.
Con uno stile limpido e mai accademico, l'autrice intreccia dati, storie e domande esistenziali. Si sofferma anche sugli effetti sociali delle “carezze negate” nell’era digitale: la distanza fisica imposta dalla pandemia, il dilagare delle relazioni mediate da schermi, la solitudine tattile che attraversa le generazioni più giovani. La pelle che pensa è un libro che unisce la solidità della scienza alla tenerezza dell’osservazione umana. Si legge come un saggio ma è anche un invito a riconoscere la trama invisibile che tiene insieme biologia ed emozioni.
In un’epoca di distanze, Marta Paterlini ci ricorda che conoscere significa anche sfiorare – e che ogni contatto, se consapevole, può diventare una forma di pensiero. Scrive infatti che «non possiamo toccare senza essere toccati: ogni contatto genera una trasformazione reciproca» e prosegue affermando che la pelle «non è solo un involucro, ma una finestra sul nostro mondo interiore».