SOCIETÀ

Sconfiggere l’inquinamento da plastica

La crisi ambientale nella quale siamo immersi è sfaccettata, suddivisa in tanti problemi minori, già in sé complessi, dei quali spesso ci sfugge l’interconnessione. I temi da affrontare sono molti: dalla protezione degli ecosistemi alla gestione delle risorse naturali, dallo smaltimento di rifiuti di ogni tipo alla perdita di specie, dall’affrontare gli eventi estremi alle questioni di giustizia climatica.

In effetti, si tratta di problemi ben distinti gli uni dagli altri. Eppure, a uno sguardo attento non sfugge che nascono dalle stesse radici – un modello di sviluppo miope, che ha costruito le proprie fondamenta sull’insostenibile base dei combustibili fossili e dell’intenso sfruttamento delle risorse naturali – e condividono gran parte delle soluzioni.

Quanta plastica?

Nel 2023, la Giornata Mondiale dell’Ambiente compie 50 anni. Istituita sotto l’egida del Programma Ambientale delle Nazioni Unite (UNEP) \nel 1973, è da allora un’occasione per accendere i riflettori sui temi meno raccontati legati alla crisi ambientale e per animare il dibattito pubblico sulle soluzioni da implementare. Il tema su cui quest’anno si concentra l’attenzione è l’inquinamento da plastica, ubiquo e sempre più pervasivo. Raccogliamo dunque il testimone degli organizzatori, Costa d’Avorio e Olanda, e proviamo non solo a restituire l’entità della questione, ma anche ad approfondire quali siano le conoscenze e le soluzioni ad oggi disponibili.

Le stime che quantificano la mole di rifiuti plastici dispersi nell’ambiente sono sempre più accurate. Uno studio apparso di recente sulla rivista scientifica PLOS One offre una nuova stima della quantità di plastica che galleggia nello strato superficiale dei mari e negli oceani di tutto il mondo. I dati mostrano che, in base alle serie storiche, è possibile individuare un’impennata nella quantità di rifiuti plastici nelle acque marine a partire dal 2005. Gli autori della ricerca hanno inoltre quantificato quale potrebbe essere il numero di residui plastici che galleggiano oggi nei mari: il dato medio è di circa 171.000 miliardi di particelle, nella maggior parte dei casi microscopiche (le famigerate microplastiche, di diametro inferiore a 5 mm), per un peso medio complessivo di circa 2,3 milioni di tonnellate. Gli autori della ricerca commentano che tra le cause più probabili dell’evidente aumento riscontrato dall’inizio di questo secolo potrebbero esservi sia un ingente aumento della quantità di plastica prodotta, sia cambiamenti nella gestione dei rifiuti lungo la filiera, ben prima che arrivino al mare. Inoltre, non bisogna dimenticare che anche le microplastiche più ‘antiche’ permangono negli ambienti marini, continuando a degradarsi e a ridursi in frammenti sempre più minuti, e in questo modo contribuiscono a un ulteriore aumento della quantità di microplastiche rilevata.

Quali effetti sulla salute ambientale?

Come è ormai noto, l’inquinamento causato da questa diffusione incontrollata di residui di materiali plastici rappresenta un pericolo per la salute degli ecosistemi così come per la salute umana – le due, infatti, sono direttamente interdipendenti. Come evidenziato da un’altra ricerca pubblicata sulla rivista Nature Ecology & Evolution, le microplastiche sono ormai presenti in ogni livello delle catene alimentari su cui sono costruiti gli ecosistemi, ma gli effetti che tale onnipresenza ha sulla salute e sui meccanismi biologici ed evolutivi sono ancora tutti da chiarire.

Gli autori di questo studio hanno analizzato in che modo l’ingestione di microplastiche influisca sulla salute di due specie di uccelli marini. Come altri fattori di disturbo di origine antropica, infatti, anche le microplastiche possono alterare i tassi di diversità delle popolazioni di animali selvatici, nonché mettere a rischio la salute degli individui che le compongono. In questo caso, i ricercatori hanno riscontrato evidenti variazioni nel microbioma intestinale degli esemplari di due specie di uccelli: la sottospecie atlantica della berta maggiore (Calonectris borealis) e il fulmaro (Fulmarus glacialis). Entrambe le specie sono esposte a un ambiente e a una dieta in cui le microplastiche sono abbondanti: questi uccelli, infatti, abitano le acque aperte, e si nutrono di pesci, crostacei e molluschi marini.

Il sequenziamento genetico condotto in diversi tratti dell’apparato intestinale di esemplari di queste specie ha dimostrato come il passaggio di piccoli residui plastici abbia effetti diversi nelle diverse parti dell’apparato intestinale. A cambiare, hanno evidenziato le analisi, è soprattutto la composizione delle comunità batteriche che abitano il tratto gastrointestinale: vi è un aumento dei microrganismi patogenici e antibiotico-resistenti, e al tempo stesso diminuiscono i microrganismi ‘benefici’ solitamente residenti nel tratto digestivo.

Nel comunicato stampa rilasciato per la pubblicazione dello studio, i ricercatori hanno affermato che questi risultati descrivono una condizione che corrisponde ormai alla normalità in natura. Dunque, poiché anche noi umani riceviamo, nostro malgrado, microplastiche dall’ambiente (ad esempio attraverso il consumo di cibi contaminati), «questo studio dovrebbe rappresentare un segnale d’allarme anche per noi».

Quali effetti sulla nostra salute?

Gli effetti dell’ingestione di microplastiche sulla saluta umana sono ancora in larga parte ignoti. L’attenzione nei confronti di questo tema, infatti, è un fenomeno recente: per questo motivo non esistono ancora serie storiche in base alle quali valutare i potenziali impatti sulla salute umana. Le microplastiche, con cui entriamo inavvertitamente in contatto con incredibile frequenza (non solo consumando cibo o acqua contaminati, ma anche attraverso l’utilizzo di prodotti per l’igiene personale che contengono microplastiche, o semplicemente respirando), hanno una varietà di effetti negativi sulla salute umana. Non solo, infatti, le microplastiche sono vettori di agenti patogeni, come dimostra l’articolo di Nature Ecology and Evolution nel quale si evidenzia la correlazione tra l’ingestione di microplastiche e l’alterazione del microbioma intestinale. Bisogna anche considerare che la maggior parte dei materiali plastici contiene sostanze chimiche additive che potrebbero essere rilasciate nel corpo umano.

Secondo quanto riscontrato in un’ampia analisi curata dalla Commissione Minderoo-Monaco sulle plastiche e la salute umana, i materiali plastici hanno ricadute negative sulla salute della nostra specie ad ogni stadio del lungo e complesso ciclo di vita di questi prodotti, dalla loro produzione allo smaltimento. Poiché la plastica nasce dalla lavorazione di combustibili fossili (petrolio, gas e carbone), già l’estrazione delle materie prime necessarie alla sua produzione è fonte di inquinamento, contaminando l’aria e l’acqua nelle zone di estrazione e aumentando l’incidenza di tumori nelle popolazioni locali.

Anche durante l’utilizzo i rischi per la salute sono alti: nella maggior parte dei casi, il principale fattore di rischio è l’esposizione ai componenti chimici aggiunti al materiale plastico principale, che migliorano le qualità del prodotto ma rappresentano un reale rischio per la sicurezza dell’utilizzatore, in quanto la loro tossicità è riconosciuta. Come sintetizzato dal rapporto della Commissione Minderoo-Monaco, «gli additivi per le materie plastiche alterano le funzioni endocrine e aumentano il rischio di nascite premature, problemi neurologici nello sviluppo, difetti congeniti dell’apparato riproduttivo maschile, infertilità, obesità, malattie cardiovascolari, malattie renali e tumori». Inoltre, i rischi in fase di utilizzo dei prodotti plastici sono associati anche all’ingestione e inalazione di micro- e nanoplastiche. Come si puntualizza nello stesso Rapporto, «ci sono evidenze crescenti, seppur non ancora complete, che le micro- e nanoplastiche potrebbero causare tossicità […] anche agendo come vettori in grado di trasportare sostanze chimiche tossiche e batteri patogenici nei tessuti e nelle cellule».

Infine, un’ulteriore fonte di rischio per la salute umana è lo scorretto smaltimento dei rifiuti plastici: infatti, solo una minima parte di tutta la plastica prodotta e gettata via ogni anno viene correttamente riciclata; la maggior parte si accumula nelle discariche, dove viene spesso incenerita (rilasciando grandi quantità di fumi altamente tossici), o viene abbandonata nell’ambiente, inquinando terreni e acque e, come abbiamo visto, entrando nelle catene alimentari.

Quali soluzioni?

All’inizio del 2022, in una storica risoluzione della quinta Assemblea Ambientale delle Nazioni Unite, i 193 Paesi membri hanno confermato la propria volontà di fermare l’inquinamento causato dalla plastica, e si sono impegnati a firmare un accordo vincolante che dovrebbe entrare in vigore dal 2024. La posta in gioco è alta, il tempo è poco. Nel corso dei negoziati – già avviati – sul testo del trattato, sono emerse diverse criticità: la natura globale di questo documento, infatti, rende difficile trovare dei punti di convergenza tra le diverse esigenze.

Nell’ultima sessione di negoziati per il trattato sulla fine dell’inquinamento da plastica, conclusasi a Parigi alla fine di maggio 2023, molti analisti hanno notato come vi sia la concreta possibilità che le discussioni tra le parti procedano a rilento, soprattutto per via della difficoltà di conciliare le posizioni di coloro che si concentrano sui benefici ambientali di una più stringente regolamentazione della gestione del ciclo di vita della plastica e coloro che invece traggono vantaggio dal mantenere il sistema attuale. Al termine della settimana di consultazione, la maggior parte dei portatori di interessi ha concordato sulla necessità di adottare una prima bozza del documento prima del prossimo incontro.

A differenza di quanto accade in altre occasioni, in questo caso la risoluzione è stata adottata a maggioranza, e non all’unanimità. Questa modalità, meno usuale nelle procedure delle Nazioni Unite, è stata contestata da paesi come l’Arabia Saudita, la Russia e la Cina: non a caso, tutti paesi che hanno tutti gli interessi a far sì che il trattato non incida troppo duramente su questo mercato.

Nel frattempo, un nuovo rapporto curato dall’UNEP, pubblicato a maggio 2023 e intitolato “Turning off the tap” (“Chiudere il rubinetto”), restituisce l’urgenza di affrontare i molteplici problemi causati dal crescente inquinamento da plastica e, al tempo stesso, la difficoltà di trovare soluzioni attuabili su vasta scala.

Nel rapporto dell’UNEP si concentra l’attenzione sulla necessità di un ‘cambiamento sistemico’ che intervenga su ogni momento del ciclo di vita dei materiali plastici. L’obiettivo è realizzare la transizione verso un’economia completamente circolare, i cui pilastri siano tre grandi trasformazioni del mercato: riutilizzo, riciclo, riorientamento-diversificazione. Quest’ultimo obiettivo si potrà realizzare solo attraverso un sostanziale mutamento di prospettiva: come si legge nell’Executive Summary del rapporto, riorientare e diversificare il mercato significa offrire delle alternative alla plastica che siano realmente sostenibili, e che non si limitino a esternalizzare gli impatti, ma li riducano in maniera tangibile.

I costi ambientali e sociali dell’attuale modello lineare di produzione e (non) smaltimento della plastica sono stimati, in termini economici, intorno ai 300-600 miliardi di dollari l’anno. Inoltre, come in molti altri casi, il rischio è distribuito in modo ineguale, e il prezzo da pagare in termini di salute varia molto a seconda del grado di vulnerabilità degli individui e delle comunità coinvolte.

Secondo il rapporto, la soluzione più vantaggiosa da un punto di vista economico sarebbe la transizione ad un’economia pienamente circolare. Se questo obiettivo venisse raggiunto entro il 2040, i benefici sarebbero molteplici: tra questi, nuove opportunità lavorative, un significativo miglioramento delle condizioni dei lavoratori informali, un consistente risparmio in termini di spesa sanitaria pubblica. Sommando questi effetti positivi, sia di natura ambientale che sociale, si risparmierebbero – stimano gli autori che hanno contribuito alla stesura del documento – circa 4,5 trilioni di dollari (circa il 20% dei costi attuali).

I benefici sarebbero dunque ben superiori ai costi e ammortizzerebbero il potenziale ‘effetto rimbalzo’ dovuto alla fase di transizione. Eppure, il più grande ostacolo è proprio l’implementazione: come abbiamo visto nelle precedenti fasi di negoziazione del trattato sulla plastica, alcuni paesi e molti attori privati puntano a ridurre al minimo le norme vincolanti, e a far sì che l’attuazione degli obiettivi concordati sia su base volontaria. Come è già accaduto per gli accordi sul clima e sulla biodiversità, la possibilità che questo accordo faccia la differenza dipende dall’esito delle negoziazioni: è necessario che i paesi firmatari siano legalmente vincolati a mantenere gli impegni presi, o ancora una volta si tratterà di parole vuote.

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