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La scoperta dei miofibroblasti e le fibrosi tra storia, medicina e biologia

La descrizione scientifica del miofibroblasto, un tipo di cellula del tessuto connettivo che oggi sappiamo essere fondamentale nei processi di guarigione delle ferite, veniva proposta per la prima volta nel 1971. Cinquant'anni dopo, il volume Wound healing, fibrosis and the myofibroblast ripercorre la storia delle malattie legate alla fibrosi e al miofibroblasto da un punto di vista interdisciplinare che comprende cioè la medicina di laboratorio, la storia della medicina e la pratica clinica. Gli autori di questo volume sono Giulio Gabbiani, protagonista della scoperta che cinquant'anni fa ha permesso di chiarire la natura e il ruolo dei miofibroblasti e attualmente professore emerito al dipartimento di patologia e immunologia all'università di Ginevra, il professor Fabio Zampieri, storico della medicina al Dipartimento di scienze cardiache, toraciche, vascolari e sanità pubblica dell'università di Padova, e il dottor Matteo Coen, medico internista all'Unità di ricerca e sviluppo in educazione medica (UDREM) di Ginevra.

Il professor Gabbiani, che all'inizio degli anni Settanta aveva intrapreso un percorso di specializzazione in microscopia elettronica, si trovò a lavorare in quel periodo in tre diversi laboratori: al dipartimento di patologia della facoltà di Harvard, all'Hospital for sick children dell'università di Toronto e poi al dipartimento di anatomia dell'università di Ginevra. Fu nel corso di queste esperienze che ebbe la possibilità di familiarizzare con il concetto di contrazione delle cellule non muscolari e di accertare, grazie a una scoperta per certi versi serendipica, l'esistenza di un tipo cellulare allora sconosciuto: il miofibroblasto.

“All'epoca non esistevano nozioni di un capitolo della biologia cellulare che oggi è presente in qualsiasi libro sull'argomento: quello sul citoscheletro”, racconta il professor Gabbiani. “Si conosceva l'esistenza di alcune cellule in grado di contrarsi, ovvero quelle muscolari, tra le quali c'erano quelle muscolari lisce. Ad Harvard ho lavorato con il professor Guido Majno, che studiava un meccanismo che all'epoca era poco noto: la contrazione delle cellule dell'endotelio venulare. Dopodiché, quando mi trasferii al dipartimento di patologia dell'Hospital for sick children di Toronto, lavorai nel laboratorio del professor Stanley Hartroft, dove studiavo le pareti di un modello sperimentale di un ascesso dovuto a un'irritazione.

Fu allora che osservai dei fibroblasti pieni di filamenti simili a quelli che il professor Guido Majno ricercava per studiare la contrazione delle cellule epiteliali. Ho quindi cercato e verificato la presenza di queste cellule in altre situazioni patologiche, in primis nel processo di guarigione di una ferita aperta, all'interno del tessuto di granulazione. Sviluppai quindi l'ipotesi che queste cellule fossero coinvolte in tali processi di guarigione delle ferite aperte e proposi che si chiamassero miofibroblasti. Inizialmente pensai che i meccanismi di contrazione di queste cellule fossero gli stessi che interessano il muscolo. Con il tempo, però, mi resi conto che si trattava di meccanismi diversi, tipici dei miofibroblasti.

Esistono poi tante altre situazioni patologiche in cui cui è implicato il miofibroblasto, che si possono riassumere nelle fibrosi, che sono numerose e possono colpire, ad esempio, il tessuto connettivo del palmo della mano, nel caso della malattia di Dupuytren, il fegato, come avviene nella cirrosi, i polmoni, i reni, e il miocardio. Anche le cicatrici ipertrofiche sono caratterizzate dalla presenza dei miofibroblasti”.

L'intervista completa al professor Gabbiani, al professor Zampieri e al dottor Coen, autori del libro “Wound healing, fibrosis and the myofibroblast”. Montaggio di Barbara Paknazar

Il libro di Gabbiani, Zampieri e Coen racconta nel dettaglio il lungo percorso che ha portato alla scoperta del miofibroblasto. Ma questa storia, per certi versi, ha radici molto più antiche. Nella prefazione a cura di Bernardino Fantini, d'altronde, viene sottolineato il fatto che la medicina è di per sé una scienza storica, anche perché lo sviluppo di malattie ed epidemie, per essere compreso, “va collocato nelle giuste dimensioni del tempo e dello spazio”. Abbiamo perciò chiesto al professor Zampieri di raccontarci lo sfondo storico in cui sono emersi i concetti principali di cui si parla nel libro, a cominciare da quello di fibrosi, che oggi si usa per descrivere un deposito di tessuto connettivo che può verificarsi nel corso della guarigione di una ferita oppure nel caso di una patologia fibrotica.

“Nel libro vengono raccontate delle vicende che ripercorrono tutta la storia della medicina e, in un certo senso, anche quella dell'umanità”, riflette il professor Zampieri. “Gli esseri umani, infatti, si sono confrontati con il problema del trattamento e della guarigione delle ferite sin dalla notte dei tempi. Nel volume, infatti, abbiamo pubblicato anche dei documenti risalenti alle più antiche medicine, come quella mesopotamica e quella egiziana. Nel papiro Smith, ad esempio, si consigliava di utilizzare il miele, la cui efficacia antibatterica era evidentemente stata scoperta dagli antichi egizi empiricamente.

Il concetto di fibrosi deriva dal termine “fibra”, di origine botanica, che è estremamente antico e la cui evoluzione ricalca lo sviluppo dell'anatomia, ovvero della comprensione della struttura del corpo umano. Intorno al 1600, ispirati anche dalla filosofia di Leibniz, secondo il quale la variabilità della natura è il risultato della combinazione di alcune componenti fondamentali della realtà, ovvero le monadi, anche gli anatomisti e i medici iniziarono la ricerca dei “mattoni fondamentali della vita”. Siccome le cellule erano allora ancora sconosciute, pensarono che quel mattone basilare potesse essere proprio la fibra che, come scriveva il medico Albrecht von Haller nel 1600, aveva per il medico la stessa importanza che aveva la linea per il geometra, perché rappresentava un elemento strutturale fondamentale. Successivamente, il grande anatomista francese post-rivoluzionario Marie François Xavier Bichat scoprì che gli organi sono fatti di tessuti.

Nell'Ottocento fu poi chiarita l'esistenza del tessuto connettivo grazie a Rudolf Virchow, grande patologo tedesco soprannominato “l'Ippocrate col microscopio”, che scoprì che i tessuti sono composti da cellule. Ecco finalmente quella famosa monade che i medici cercavano da tempo: la cellula. Questo mattone fondamentale venne poi studiato da un punto di vista molecolare, così come i gruppi di cellule che sono alla base delle strutture, delle funzioni, ma anche delle patologie nel corpo umano.

E arriviamo così anche ai miofibroblasti: cellule che sono fondamentali nel processo di cicatrizzazione ma che possono avere un ruolo essenziale anche in alcune malattie, come quella di Dupuytren, la fibrosi cardiaca, quella polmonare e tante altre. Dietro ognuna di queste patologie ci sono delle storie davvero affascinanti che abbiamo tentato di raccontare in questo libro”.

La comprensione del miofibroblasto e delle sue caratteristiche ha avuto naturalmente anche un peso in ambito clinico, come ci ha spiegato il dottor Coen.

“Siccome il miofibroblasto, come abbiamo visto, è una cellula del tessuto fibrotico, da un punto di vista anatomopatologico possiamo dire che se ci ritroviamo davanti questo tipo di cellula, allora possiamo ipotizzare che sia in corso un processo fibrotico”, chiarisce Coen. “I miofibroblasti possono agire anche nello sviluppo di alcuni tipi di tumori, tramite un meccanismo chiamato reazione stromale all'espansione tumorale e, probabilmente, giocano anche un ruolo nella rottura della placca aterosclerotica.

Come è stato scoperto dal professor Gabbiani a Ginevra, il marker che permette di identificare il miofibroblasto è l'α-actina muscolare liscia. In altre parole: questa proteina ci permette di riconoscere il miofibroblasto, il quale suggerisce la presenza di fibrosi.

Volendo fare un accenno anche al presente, all'inizio della pandemia si pensava che l'interessamento polmonare del covid-19 non causasse fibrosi. In realtà, con il tempo, si è scoperto invece che questa malattia può alterare completamente i polmoni nella loro funzione. Per questo, possiamo ipotizzare che il miofibroblasto si nasconda anche tra le cause della fibrosi polmonare post covid-19.

Per quanto riguarda invece l'approccio terapeutico, il discorso è un po' più complesso. Per capire in cosa consiste il problema clinico, possiamo immaginare il miofibroblasto come un agente che crea delle linee di forza che distorcono i tessuti. Come conseguenza di questo meccanismo, non solo l'organo colpito si indurisce (e diventa cirrotico, nel caso del fegato), ma è come se al suo interno ci fosse una molla che tira continuamente senza rilassarsi mai. Per questo, i tessuti vengono totalmente alterati nella loro struttura e funzionalità. Le persone affette da una malattia chiamata sclerosi sistemica, ad esempio, nei casi più gravi possono fare fatica a sorridere, poiché la loro pelle diventa particolarmente spessa e dura. Oltre alla pelle, gli organi che sono interessati principalmente dalle fibrosi sono il cuore, il fegato e i reni.

Per il momento esistono terapie in grado di contrastare gli effetti della fibrosi polmonare, così come di quella renale, quella cardiaca, e così via. Non esistono ancora, però, terapie specifiche anti-miofibroblasto che impediscano alla cellula di distorcere il tessuto.
Sarebbe davvero eccezionale riuscire a progettare un farmaco in grado di restituire all'organo una struttura normale. Questo potrebbe trovare applicazione nella cura di tutte le patologie fibrotiche della pelle, come quella di Dupuytren, il cui trattamento, attualmente, è di tipo chirurgico”.

“Un ambito in cui esiste un embrione di terapia è quello che riguarda il trattamento delle cicatrici ipertrofiche causate da alcune bruciature”, aggiunge il professor Gabbiani. “Si tratta di ustioni che, soprattutto nei bambini, provocano quasi inevitabilmente una ipertrofia della cicatrice e causano deformazioni. In questi casi, è stato osservato che comprimendo meccanicamente le cicatrici con della fasce, queste pian piano guariscono. L'ideale, però, sarebbe senz'altro disporre di una terapia farmacologica”.

In mancanza di tale rimedio, come specificano il professor Zampieri e il dottor Coen, per alcune malattie fibrotiche, come quella polmonare o per la cirrosi, la soluzione migliore è spesso quella del trapianto. “L'opzione del trapianto, che è stata introdotta efficacemente in medicina a partire dagli anni Ottanta, ha dimostrato la correttezza della prospettiva anatomopatologica, secondo la quale, se si sostituisce l'organo malato con un organo sano, il paziente guarisce”, conclude Zampieri.

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