SCIENZA E RICERCA

Semi ritrovati

Vavilov aveva trascorso ancora un anno e mezzo in carcere, fino alla morte avvenuta il 26 gennaio del 1943 a causa della fame. Un’amara ironia del destino per uno scienziato che aveva dedicato la vita a trovare nuove armi per combatterla.

Lui, Nikolai Vavilov, è il protagonista assoluto di una delle due storie parallele che Marco Boscolo ed Elisabetta Tola propongono nel libro Semi ritrovati (Codice edizioni, 2020, pagg. 226, euro 16,00). 

La prima storia è quella che ha per protagonisti i due autori impegnati in un «viaggio alla scoperta della biodiversità in agricoltura» che li ha visti correre in ogni angolo del mondo alla ricerca dei semi antichi, quelli espulsi dalla produzione intensiva nei campi.

La seconda storia, che in ogni capitolo si intreccia con la prima, è la storia di questo genetista russo che ha seguito, cento anni prima, lo stesso viaggio per il medesimo obiettivo al fine di liberare la Russia dalla fame. L’idea di Vavilov è semplice: l’agricoltura è iniziata all’incirca 10.000 anni fa nella mezzaluna fertile. È lì che, probabilmente, si trovano ancora i semi ancestrali dei cereali e di altre piante utili alla nostra alimentazione. Se ritroviamo quei semi antichi e li incrociamo con sapienza, riusciremo ad avere piante con le caratteristiche desiderate. Comprese quelle di saper resistere agli inverni della grande madre Russia. Ne è sortita una serie di viaggi, spesso avventurosi, che lo ha portato in tutti i tre continenti connessi (Asia, Africa ed Europa) alla ricerca di semi. Ad ogni tappa riempiva sacchi che spediva a San Pietroburgo e che andavano ad alimentare, lì in Russia, la prima banca della biodiversità agricola al mondo. E a fare, così, scrivono Boscolo e Tola: «della genetica la principale arma per sconfiggere la fame vera».

Un grande scienziato innovatore, Nikolaj Vavilov. Che come molte persone di genio e con esperienza all’estero cadde sotto la scure cieca e crudele di Josip Stalin. Finì nelle prigioni sovietiche e, in piena guerra, morì, ironia della sorte appunto, per fame lui che la fame aveva trovato il modo di combatterla con efficienza. Oggi più che mai le banche dei semi inventate da Vavilov sono alla base di un progetto, esteso a tutto il mondo, di conservazione e di innovazione.

Percorrendo un secolo dopo o giù di lì quasi i suoi stessi passi e facendosi accompagnare idealmente da Vavilov in ciascuna tappa – dall’Iran all’Etiopia, dalla Francia al Senegal, dall’Indonesia agli Stati Uniti, dal Sud Africa all’Italia stessa – Marco Boscolo ed Elisabetta Tola hanno seguito un percorso alla ricerca delle pratiche più avanzate di conservazione e di innovazione in agricoltura “dal basso”.

Il tema che i due autori pongono è quello dell’erosione della biodiversità che ha caratterizzato (sta caratterizzando) l’agricoltura moderna e la pratica delle grandi imprese multinazionali che controllano i semi: come scrivono Boscolo e Tola, tra solo grandi aziende, la tedesca Bayer, la svizzera Sygenta e la cinese ChemChina, controllano addirittura il 65% del mercato mondiale delle sementi. Questo oligopolio determina un’assenza di competizione che a sua volta determina, spesso, un’assenza di innovazione. Inoltre in molti campi si produce, in maniera intensiva appunto, quantità crescenti di poche specie vegetali. Il sistema non è sostenibile né da un punto di vista sociale (i contadini dipendono sempre più dai proprietari mondiali dei semi) né da un punto di vista strettamente agronomico: puntare su poche specie espone a grandissimi rischi, come insegna la storia della grande crisi delle patate in Irlanda consumatasi tra il 1845 e il 1849. Il paese puntò tutte le sue carte agricole su un’unica specie di patate, la Lumper, che non resistette all’attacco di un microrganismo, la peronospora (detta appunto delle patate e del pomodoro). Il risultato fu che l’Irlanda perdette la metà della sua popolazione, in parte morta per fame, in parte costretta a emigrare.

La biodiversità è una difesa flessibile alle malattie, le più devastanti. E quello che Marco Boscolo ed Elisabetta Tola hanno fatto è andare nei paesi indicati alla ricerca di chi mette in campo una tale difesa. Gente che cerca i semi antichi per conservarli e creare in presupposti della “difesa flessibile”.

Ma queste stesse persone usano i semi antichi e la genetica (attraverso gli incroci) anche e soprattutto per innovare. Per creare piante in grado di reagire meglio all’ambiente che cambia. Non sono vecchi nostalgici, sottolineano più volte Boscolo e Tola, le persone che incontriamo (scienziati e contadini) ma, appunto, innovatori che puntano sulla biodiversità per migliorare la produttività nei campi nell’ambiente che cambia. Gente, cioè, che segue strade alternative a quelle delle grandi aziende multinazionali dell’agricoltura

Ma c’è di più. Si tratta di persone, che in modo originale a seconda delle culture di cui sono parte, sperimentano quella che Salvatore Ceccarelli chiama il “miglioramento genetico partecipativo”. L’idea di questo esperto dalla vita movimentata – professore ordinario di Genetica Agraria presso l'Istituto di Miglioramento Genetico dell’Università di Perugia fino al 1987, poi ricercatore in giro per il mondo a promuovere un’altra agricoltura – è davvero innovativa: i contadini non devono limitarsi a “scoprire i semi” e a “riscoprire i semi”, realizzando una sorta di preziosa citizen science, ma devono partecipare in maniera cooperativa a tutte le fasi della filiera, da quella della ricerca a quella della produzione e dell’allestimento di piccole banche del seme. Il cui obiettivo è puntare più sulla qualità che sulla quantità della produzione.

Forse questo approccio non basta a soddisfare tutta la domanda mondiale di cibo. Ma è necessario se vogliamo che l’agricoltura del futuro sia sostenibile sia da un punto di vista economico che da un punto di vista sociale. La stanno realizzando gente come Giuseppe Li Rosi in Sicilia, Asefa Bekele e la sua cooperativa in Etiopia, Jean-François Berthellot in Francia, Jacques Namtchougli in Togo, Aventinus Turu in Indonesia, Kevin Greene negli USA, Sean Freeman in Sud Africa e innumerevoli altri incontrati in ogni continente dai due giornalisti scarpe in spalla.

Ma quello realizzato da Marco Boscolo ed Elisabetta Tola è un lungo viaggio – è il caso di dirlo, sul campo – non nell’agricoltura del passato ma in quella del futuro. In una parte, almeno, dell’agricoltura del futuro.

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