I nomi di alcuni dei giornalisti uccisi in Messico davanti al Palazzo Nazionale di Città del Messico. Foto: Reuters
Non c’è legge, non c’è uniforme, non c’è autorità che riesca a rallentare l’incredibile escalation di violenza che continua a martoriare il Messico, cerniera naturale tra le due Americhe e snodo vitale del narcotraffico. Un bollettino di guerra (perché di guerra si tratta) che si aggiorna di ora in ora tra omicidi, agguati, sparizioni, torture, violenze di genere, violazione dei più elementari diritti umani. L’unica legge che viene rispettata è quella del crimine, con le faide tra i cartelli del narcotraffico che si scontrano tra loro e spazzano via qualsiasi ostacolo “civile” trovino sulla loro strada. E non c’è limite all’orrore quotidiano: soltanto nel 2021 gli omicidi in Messico sono stati 33.308, oltre 91 al giorno; e negli anni precedenti era andata, seppur di poco, perfino peggio: oltre 34mila sia nel 2019 sia nel 2020. L’impunità è la regola, in un impasto di corruzione e di complicità istituzionali: secondo México Evalúa, un centro di analisi non governativo, soltanto il 5,2% dei crimini commessi in Messico viene risolto. O sei complice o vieni eliminato: un’equazione che vale per chiunque ricopra un ruolo politico, istituzionale, sociale. È notizia di pochi giorni fa la doppia imboscata del weekend pasquale, nella quale sono caduti i comandanti della Polizia a Juárez, nel nord-ovest dello stato di Chihuahua, uno dei 31 che compongono la Repubblica Federale del Messico. Secondo i notiziari locali, i responsabili sarebbero membri dell’organizzazione criminale “La Linea”, il cartello della droga di Juarez. Tra le vittime anche tre funzionari della Fiscalía General del Estado (FGE), la Procura nazionale. Mentre, alla fine di marzo, ha fatto scalpore la pubblicazione di un rapporto di un gruppo indipendente di esperti secondo il quale le forze armate messicane avevano deliberatamente coperto i responsabili delle “sparizioni”, avvenute nel 2014, di 43 studenti di un istituto rurale di formazione per insegnanti nella cittadina di Ayotzinapa, legato a movimenti sociali di sinistra (dunque sovversivi). Tomás Zerón, che all’epoca era il capo dell’agenzia investigativa federale al momento del rapimento, nel 2019 è fuggito in Israele: ora è ricercato con l’accusa di tortura e complicità. L’ipotesi è che il rapimento fu organizzato e realizzato dalla stessa polizia locale. La maggior parte dei corpi degli studenti non è mai stata trovata.
I sepolti senza nome
Non meno drammatico il dato sui desaparecidos messicani: l’agenzia di stampa Efe stimava, a giugno dello scorso anno, che oltre 82mila persone fossero scomparse tra il 2006 e il 2021, inghiottite nel nulla. Sei mesi fa il New York Times arrotondava la stima in quasi 100mila, pubblicando un reportage di grande impatto con le immagini raccolte dal fotografo Fred Ramos degli indumenti dei “sepolti senza nome”, ritrovati spesso nel deserto, spesso in fosse comuni (ne sono state trovate oltre 4mila), tra cumuli disordinati di ossa. «La scomparsa è forse la forma più estrema di sofferenza per i parenti delle vittime», aveva dichiarato al NYT Angélica Durán-Martínez, docente di scienze politiche all’Università del Massachusetts, esperta di violenza in America Latina. «La crisi dei desaparecidos in Messico non racconta soltanto la prevalenza della criminalità organizzata, ma anche della propensione alla violenza delle forze di sicurezza dello Stato». Il governo messicano ha attivato da un paio d’anni una Commissione Nazionale di Ricerca che aggiorna quotidianamente le sue statistiche. Dal 15 marzo 1964 a oggi, sono oltre 243mila le persone scomparse, con un’impennata dei casi dal 2006 in poi: oltre 99mila quelle di cui nulla più si è saputo. Il 41% sono, o meglio erano, donne. Come le 26 ragazze scomparse dall’inizio dell’anno soltanto nello stato del Nuevo León, nel nord del Messico. L’ultima in ordine di tempo è Debhani Escobar, 18 anni, studentessa di giurisprudenza, attivista per i diritti delle donne e per la parità di genere. Non c’è più traccia di lei dal 9 aprile. Familiari e amici continuano a distribuire volantini offrendo centomila pesos di ricompensa (circa 5mila dollari americani) a chi aiuterà a riportarla a casa. Altre cinque donne, sempre in quello stato e sempre dall’inizio dell’anno, sono state ritrovate morte. Nei primi due mesi del 2022 in Messico sono stati denunciati 155 femminicidi.
Non basta: nel mirino dei criminali (non soltanto dei cartelli della droga: spesso mandanti ed esecutori indossano una divisa) ci sono anche i giornalisti. Negli ultimi vent’anni ne sono stati ammazzati oltre 150. Otto le vittime dall’inizio del 2022. La testata giornalistica Monitor de Michoacán (uno stato del centro) è stata chiusa dopo l’omicidio di un collaboratore prima e del direttore della testata poi, Armando Linares López, ucciso a colpi di arma da fuoco nella sua abitazione a Zitácuaro, il 15 marzo scorso. Una chiusura forzata per paura di ulteriori attacchi, dopo aver indagato a fondo sulla corruzione politica e sul dominio della criminalità organizzata a Michoacán, uno stato in cui i cartelli della droga imperversano da oltre vent’anni. Lo stesso Linares, che da mesi riceveva minacce di morte, aveva denunciato i colpevoli dell’omicidio del collega Roberto Toledo in un’intervista rilasciata a Aristegui en vivo: «Riteniamo le autorità municipali di Zitácuaro, Michoacán, responsabili di qualsiasi attacco al nostro personale». E del mestiere di giornalista, Linares era solito ripetere: «Non siamo armati, non portiamo armi; la nostra unica difesa è una penna, una matita, un taccuino». Il vicedirettore del Monitor, Joel Vera, ha scritto su Facebook: «L’ufficio del procuratore speciale per i crimini contro la libertà di espressione ha in suo possesso le prove degli autori dell’omicidio del nostro direttore. Tuttavia, il governo statale e l’ufficio del procuratore generale hanno mostrato una mancanza di interesse nel trovare i responsabili, sia gli autori sia le menti, dal momento che gli assassini sono tra i ranghi di entrambi». Secondo Reporters sans frontières (Rfs) il Messico è uno dei paesi più pericolosi al mondoper svolgere la professione di giornalista. Tra le vittime di quest’anno c’è anche Margarito Martínez Esquivel, il più noto fotoreporter di Tijuana (qui un video-ricordo pubblicato pochi giorni fa dal Guardian).
Una manifestazione di protesta per i giornalisti uccisi in Messico. Foto: Reuters
I giornalisti tra due fuochi
Opendemocracy, piattaforma indipendente online, traccia un quadro desolante: «I giornalisti freelance spesso ricevono 50 pesos (circa 2,50 dollari americani) a storia, mentre quelli a libro paga hanno uno stipendio mensile di circa 5.000 pesos (circa 250 dollari). Ciò significa che per guadagnarsi da vivere, i giornalisti devono lavorare per più testate senza benefici occupazionali, come l’assicurazione sanitaria o l’alloggio. Inoltre, esiste una corruzione endemica all’interno della stampa, che ha portato molti giornalisti, per necessità o ambizione, ad accettare denaro. Per sopravvivere, molti media sono costretti a cercare accordi con i governi, mettendo “in vendita” la loro linea editoriale. Secondo diverse ONG, il potere politico è la principale minaccia per la stampa. Le condizioni di lavoro e il potere del governo di controllare il denaro pubblico attraverso la pubblicità creano una doppia vulnerabilità per giornalisti e media. E la mentalità dell’attuale governo nei confronti della stampa è la stessa espressa dall’ex presidente Gustavo Díaz Ordaz negli anni '60: “Non pago per essere picchiato”. Il risultato è una stampa uniforme, che offre poche critiche al governo e al suo uso senza ostacoli del denaro pubblico. E la maggior parte dei politici in Messico non tollera le critiche e reagisce con minacce, percosse, rapimenti e persino omicidi».
L’attuale presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, è un controverso populista di sinistra più noto con l’acronimo “Amlo”, dalle iniziali del suo nome. Ha appena “vinto” il referendum di conferma del suo mandato, da lui stesso indetto per rimarcare la “sovranità popolare”, anche se il popolo ha palesemente snobbato l’appuntamento: l’affluenza alle urne è stata appena del 17,5% degli aventi diritto (il 91% ha votato per il via libera alla permanenza del presidente fino al 2024). Evidentemente l’opinione pubblica ha altro a cui pensare, distratta e assuefatta a una violenza ormai endemica. Ma oltre ad aver raccolto più di una critica per i suoi metodi poco democratici, Amlo è noto per i suoi attacchi espliciti contro i giornalisti, nella sua narrazione ostentata di “stampa buona e stampa cattiva”. «Questo atteggiamento rischioso potrebbe essere visto come un modo per minimizzare i crimini, e potrebbe persino essere interpretato come pretesto per attaccare i giornalisti», scrive Opendemocracy. Da quando Obrador è presidente (dal dicembre 2018) gli attacchi contro i giornalisti sono aumentati dell’85%, stando all’ultimo rapporto presentato da Article 19, l’organizzazione internazionale per i diritti umani, con sede a Londra, che opera per difendere e promuovere la libertà di espressione e la libertà di informazione in tutto il mondo: «Nel 2021 ci sono stati 664 attacchi documentati, l’equivalente di uno ogni 14 ore, tra cui minacce online, molestie, accuse penali arbitrarie e sette omicidi. Funzionari governativi sono stati collegati a 274 incidenti, mentre la criminalità organizzata ne ha causati circa 42», riporta il Guardian. Come dire: licenza d’intimidire, se non peggio. E tutto nella più totale impunità, al punto che Article 19 ha sentito il bisogno di ribadire, pochi mesi fa, che «le autorità statali e federali hanno il dovere di prevenire attacchi contro la stampa, proteggere le vittime e indagare sugli omicidi di giornalisti». Lo scorso mese, oltre 600 deputati del Parlamento Europeo hanno votato una risoluzione di condanna sugli omicidi dei reporter messicani e di preoccupazione per l’uso, da parte di López Obrador, della retorica populista “per denigrare e intimidire giornalisti indipendenti, proprietari di media e attivisti”. La risposta del governo messicano, con il presidente che ha definito “calunniosa” la risoluzione, è stata sprezzante: «Non dimenticate che non siamo più la colonia di nessuno. Il Messico è un paese libero, indipendente e sovrano».
E i “cartelli” dettano legge
Tra corruzione, populismo e un confine sempre più labile tra lecito e illecito, s’inseriscono le organizzazioni criminali (le più importanti, oggi, sono i “Jalisco New Generation” e i “Los Zetas”, noti anche come “el cártel de la última letra”, organizzazioni dotate dei più moderni armamenti, dai droni ai mini-carri armati) che di fatto si muovono senza controllo, senza più regole, senza limiti. E che governano il transito della droga dal Sud al Nord America, un affare stimato nell’ordine dei 150 miliardi di dollari l’anno. Obrador, di fatto, non sembra avere la forza d’incidere, né di attenuare la portata degli scontri, sempre più violenti e plateali. Il suo slogan d’investitura, “abrazos, no balazos” (abbracci, non proiettili), a indicare un approccio più soft rispetto al passato rispetto alle bande di narcotrafficanti, non ha portato risultati. E non è un buon segnale la decisione di questi giorni del governo messicano di sciogliere la sua unità antidroga Sensitive Investigative Units (SIU), che ha lavorato per 25 anni al fianco della Drug Enforcement Administration (DEA) statunitense proprio per combattere i cartelli della droga e intercettare le rotte del contrabbando.
Scrive Human Right Watch nel suo ultimo rapporto sul Messico: «Le violazioni dei diritti umani, comprese torture, sparizioni forzate, abusi contro i migranti, esecuzioni extragiudiziali, violenze di genere e attacchi a giornalisti indipendenti e difensori dei diritti umani, sono continuate sotto il presidente Andrés Manuel López Obrador». E ancora: «Il sistema giudiziario non garantisce il giusto processo agli accusati di reati. La polizia e i pubblici ministeri usano comunemente la tortura per ottenere confessioni. La detenzione preventiva è obbligatoria per molti reati, violando gli standard internazionali sui diritti umani». La rivista americana Forbes si chiedeva, il mese scorso: è sicuro viaggiare in Messico? E dopo aver elencato i più recenti casi di omicidi e di sparatorie (anche nei pressi di hotel di lusso, come accaduto lo scorso novembre in una spiaggia di fronte a un resort a Puerto Morelos, a sud di Cancun, con i turisti in fuga) riportava una nota del Dipartimento di Stato americano, che assegna al Messico un “livello 3” su una scala da 1 a 4, che equivale a “riconsiderare il viaggio”. In alcune aree del paese, dove imperversano con maggiore intensità le bande criminali, l’avviso è definitivo: un “no-go” di livello 4.