SOCIETÀ

Shock advertising: da Armine alle pubblicità progresso

La "modella di Gucci" ha imperversato sulla stampa e in tv, ed è stata tirata in mezzo in una moltitudine di disquisizioni più o meno qualificate sui social network. Si andava da profondissime riflessioni sul concetto di bellezza analizzato in chiave filosofico-esistenziale a un più lapidario "è brutta", declinato anche in modo più triviale.
I più scafati e cinici hanno scoperto l'acqua calda: "È una mossa di marketing!", tuonavano, diventando parte del ritorno di immagine di una campagna pubblicitaria ben riuscita. Nel frattempo, pochi si degnavano di chiamare la "modella di Gucci" con il suo nome, Armine Harutyunyan: per il marchio la missione (pubblicitaria) è compiuta, perché al centro viene messo il brand, e non la modella.

Oltre a queste considerazioni, c'è un dettaglio che pochi hanno considerato: la moda in questi anni è cambiata, non è più il regno della taglia 38 e dei lineamenti regolari, il "curvy " sta salendo alla ribalta e l'asimmetria di Harutyunyan è diventata evocativa. "Il sistema moda e i grandi brand internazionali - conferma Claudio Riva, sociologo dei media e presidente della triennale in Scienze sociologiche a Padova - hanno linguaggi diversi da quelli che più di qualcuno ancora percepisce: le facce e i corpi in passerella non richiamano il partner ideale né sono ricercati per solleticare le fantasie erotiche del pubblico. Sono scelti per creare significati e interpretare atmosfere, storie, emozioni".

Questo aspetto non è secondario, e anzi apre ulteriormente il dibattito. Scegliere una modella come Harutyunyan o Chantelle Brown-Young può ampliare l'archetipo di bellezza nel grande pubblico o è destinato a rimanere un riuscito esperimento di marketing?

In realtà la scelta di modelle dalla bellezza non convenzionale si inserisce in una tecnica di marketing abbastanza datata che è quella dello shock advertising. Molti millennial ricorderanno le pubblicità progresso per sensibilizzare la popolazione sul tema hiv: i malati circondati dall'alone rosa che infettavano il prossimo con tanto di musica da film horror in sottofondo, il partner che in un momento intimo tira fuori la pistola e spara.

"Quella dello shock advertising - conferma Riva - è una tecnica comunicativa spesso utilizzata dalle organizzazioni no profit per pubblicità volte a sensibilizzare i cittadini riguardo a temi di importanza sociale. Gli stimoli più comuni sono la paura e l’angoscia: è la tattica del fear appeal, spesso utilizzata per incoraggiare un cambiamento nei comportamenti o atteggiamenti ritenuti sbagliati o pericolosi. Queste pubblicità utilizzano immagini scioccanti per porre enfasi sugli aspetti negativi che possono derivare dalla mancata accettazione delle sollecitazioni proposte e che fanno scalpore, poiché i cittadini, accogliendone favorevolmente il messaggio, solitamente accettano la provocazione ai fini della sensibilizzazione delle coscienze".

Non sempre però le cose vanno secondo i piani, e infatti la pubblicità che aveva lo scopo di sensibilizzare alla prevenzione dell'hiv è stata più volte accusata di aver ghettizzato i malati, lanciando un messaggio troppo terrorizzante. Altre volte, la paura stessa è un ostacolo alla riuscita del progetto: "Se il contenuto è troppo forte o disturbante - spiega Riva - è facile che venga filtrato e cancellato dalla memoria, diventando inefficace. Lo shock e le minacce, fino a un certo punto, possono stimolare una maggior attenzione nei confronti dei contenuti del messaggio, ma dopo quel punto creano conseguenze negative che spingono a una fuga difensiva rispetto al messaggio. All’interno della pubblicità andrebbero suggeriti anche comportamenti e soluzioni, senza le quali si rischia che l’individuo reagisca negativamente nei confronti di chi ha costruito il messaggio minaccioso o che, più in generale, rifiuti la sua visione del mondo. Per funzionare, lo shock non deve essere il contenuto esclusivo del messaggio ma, semmai, la premessa di una comunicazione che comprende anche una soluzione rassicuratoria allo shock".

C'è poi una netta differenza: se parliamo di no profit il messaggio è potenzialmente più accettato, mentre nel caso dell'advertising propriamente detto le incognite sono maggiori: "Se parliamo di brand - conferma Riva - quando si opta per uno shock advertising poco accorto, le pubblicità rischiano di diventare argomento di polemiche e possono anche crearsi associazioni negative con il prodotto sponsorizzato o con il brand stesso. Con i social media, tra l'altro, le campagne negative contro un’azienda e un brand sono facilissime da mettere in piedi. Se l’obiettivo è semplicemente la visibilità e la conoscenza che l’audience ha del brand, come mi sembra sia il caso di Gucci, allora l’utilizzo dello shock advertising è indicato. Se, invece, l’obiettivo è incrementare le vendite o creare un’immagine di marca accettata da tutti, allora la strada dello shock advertising può risultare rischiosa".

E le insidie non finiscono qui. Riva fa l'esempio della campagna di Oliviero Toscani per No-li-ta: il soggetto era Isabelle Caro, una modella gravemente anoressica. La pubblicità aveva comprensibilmente turbato gli spettatori, ma non era riuscita nell'intento di scoraggiare l'anoressia né di sensibilizzare malati e parenti. Anzi: "Per chi soffre di disturbi del comportamento alimentare - spiega Riva - un’immagine del genere corre il rischio di venire esaltata, come le tradizionali immagini “thinspo” che mostrano l’esito di quell’atteggiamento di controllo sul proprio corpo che, per alcune, sarebbe perseguibile e auspicabile. Inoltre la pubblicità potrebbe ingannare familiari e amici che vorrebbero aiutare un soggetto che soffre di disturbi alimentari ma che non ha ancora un corpo malato scheletrico ed emaciato come quello di Isabelle. Queste persone potrebbero immaginare la malattia come qualcosa di lontano dall'esperienza reale dei malati, che per fortuna non sono tutti allo stadio finale come la modella ritratta da Toscani, ma che potrebbero invece essere aiutati prima di arrivarci."

Lo shock advertising, insomma, va utilizzato con il contagocce, anche perché "bene o male, basta che se ne parli" è un concetto ormai morto e sepolto.

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