La rapida crescita di data center delle Big Tech statunitensi si sta rapidamente traducendo in una crescente domanda energetica che, se non fornita da fonti rinnovabili, risulta emissiva ed inquinante. Sia Google sia Microsoft in due distinti rapporti hanno recentemente ammesso che le loro emissioni negli ultimi anni sono notevolmente cresciute e addirittura hanno dichiarato che gli obiettivi di sostenibilità che intendevano raggiungere entro fine decennio, ora risultano fuori portata.
La causa principale è la corsa alla conquista del mercato dell’Intelligenza Artificiale, che richiede grandi capacità di elaborazione dati e dunque molta energia. La consapevolezza del problema nella Sylicon Valley è alta, tanto che Google e Meta, tra le soluzioni che stanno pensando di adottare, hanno scelto di puntare anche sull’energia geotermica.
Due tipi di geotermico
Il sottosuolo ha una temperatura stabile: ci sono in media 17°C a circa 100 metri, mentre si raggiungono anche i 300°C a 3 o 4 km di profondità. Il nucleo della Terra arriva a 5000°C, ma raggiungerlo è pressoché impossibile. Si può invece perforare il terreno per diverse centinaia di metri ed estrarre il calore tramite l’utilizzo di fluidi che effettuano uno scambio termico: il calore del sottosuolo viene trasmesso ai fluidi e riportato in superficie. Qui solitamente, associato a una pompa di calore elettrica, viene impiegato per la climatizzazione di un ambiente.
“Utilizzare il suolo, che ha una temperatura stabile tutto l’anno, è molto più conveniente rispetto all’aria, che invece ha problemi di picco, ovvero temperature molto alte o molto basse” spiega Antonio Galgaro, Professore di geofisica applicata del dipartimento di Geoscienze e vice direttore del Centro Levi Cases dell’università di Padova. “Una pompa di calore geotermica consuma metà dell’energia che consuma una pompa di calore ad aria. Nelle prospettive di sviluppo di queste tecnologie, che saranno il futuro della climatizzazione, anche invernale, la geotermia ridurrebbe di molto le richieste energetiche”.
Il riscaldamento o il raffrescamento degli edifici rappresenta dunque la naturale e principale destinazione della risorsa geotermica, ma in alcuni casi l’energia del sottosuolo può essere sfruttata anche per un altro fine: produrre energia elettrica. “Si chiama anche geotermia profonda, di alta temperatura o ad alta entalpia. Solitamente si deve andare oltre i 2 o 3 km di profondità” spiega Galgaro. “ma ci sono zone, come le isole Eolie e in generale le zone vulcaniche, in cui abbiamo già 300°C a qualche centinaio di metri”.
Le alte temperature del sottosuolo riscaldano un fluido che produce vapore e che, portato in superficie, fa girare delle turbine con cui si genera energia elettrica. “Rispetto al calore, l’elettricità è più facile da trasportare. La produzione poi è costante, perché non risente delle condizioni meteorologiche, come avviene per le altre rinnovabili, come fotovoltaico ed eolico”.
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I rischi della perforazione profonda
Per raggiungere grandi profondità alcune tecniche di perforazione possono essere più impattanti di altre. Google e Meta ad esempio hanno stretto una partnership con due diverse compagnie statunitensi, rispettivamente Fervo Energy e Sage Geosystems, che per farsi largo nella roccia impiegano la medesima tecnologia che ha fatto la fortuna recente delle compagnie estrattrici di petrolio e gas negli Stati Uniti: il fracking.
Grandi quantità di acqua ad alta pressione vengono iniettate nel terreno per fratturare le rocce e raggiungere i depositi. Nel caso della geotermia profonda, “si va alla ricerca di roccia vulcanica che ha grandi contenuti di isotopi radioattivi di uranio, torio e potassio. È proprio il processo di decadimento di questi elementi radioattivi che emette molto calore” spiega Galgaro. “Venendo intercettate zone naturalmente radioattive occorre fare molta attenzione e operare tutte le valutazioni del caso”.
Un altro rischio legato al fracking riguarda la sismicità indotta. “Una volta intercettate queste masse molto appetibili dal punto di vista energetico, vengono iniettati fluidi freddi che rompono per shock termico improvviso la massa rocciosa, rendendola permeabile, ovvero attraversabile da fluido, in questo caso acqua”.
Oltre al pozzo di iniezione, l’impianto ne ha anche uno di prelievo. Durante la fase sotterranea il fluido si riscalda e risalendo porta vapore in superficie, che aziona una turbina per produrre energia elettrica. “Il problema principale dal punto di vista ambientale è l’effetto sismico prodotto dalla rottura di questa roccia. Una decina di anni fa in Europa era stato fatto un esperimento analogo, in Francia ai confini con la Svizzera, che però aveva prodotto forti vibrazioni che hanno raggiunto anche il terzo o quarto grado della scala Richter. La fase sperimentale è stata bloccata. Negli Stati Uniti invece hanno ampie zone libere da centri abitati e quindi vanno avanti”.
Approcci meno impattanti: i sistemi a circuito chiuso
Oltre all’elevato consumo di risorse idriche, il fracking è associato a diverse problematiche ambientali, tra cui l’inquinamento delle falde acquifere. Un sistema di perforazione come quello appena descritto viene definito a circuito aperto, poiché inietta ed estrae fluidi dal terreno, con rischio di contaminazione. “Esistono però anche sistemi che non prevedono l’estrazione di fluidi, né tanto meno la fratturazione indotta” puntualizza Galgaro. “Si possono utilizzare invece situazioni naturali che non comportano modificazioni meccaniche del sottosuolo, né consumo di risorse idriche”.
Il calore può infatti essere estratto con sistemi a circuito chiuso, dove un fluido corre sempre all’interno di tubazioni ed effettua lo scambio termico senza mai venire rilasciato nel sottosuolo. “Si possono avere due pozzi collegati tra loro in profondità da una tubazione a forma di “U”, oppure il sistema può essere coassiale, ovvero un unico pozzo con una mandata e un ritorno. Giunto in superficie, il fluido riscaldato viene collegato a un circuito, cede calore a un fluido secondario “basso bollente”, ovvero che evapora a 20°, 30° o 40°C, e il vapore così generato aziona una turbina che produce energia elettrica”.
Grazie a un finanziamento del PNRR, Antonio Galgaro sta lavorando a un progetto di cui fa parte anche l’università di Padova alle isole Eolie, in Sicilia, a Panarea. “Avendo 300°C a 300 metri di profondità, stiamo sperimentando un sistema coassiale a circuito chiuso sia per generare energia elettrica, sia per alimentare un dissalatore, per fornire acqua potabile alle isole. Trattandosi di zone vincolate e protette dal punto di vista ambientale, andiamo incontro alla necessità di rendere energeticamente autonome le isole senza ricoprirle di pannelli fotovoltaici o pale eoliche”.
Un’altra tecnologia che sfrutta i sistemi a circuito chiuso per raggiungere profondità elevate, ma a basso impatto, è in corso di sperimentazione nell’ambito di un progetto di ricerca internazionale, DeepU, finanziato dal programma Pathfinder dell’Unione Europea.
L’obiettivo è raggiungere profondità elevare in tempi rapidi e per farlo il gruppo di Antonio Galgaro, assieme a partner polacchi, tedeschi, irlandesi e del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) sta sviluppando una tecnologia che combina l’utilizzo di raggi laser e gas criogenici per rimuovere la roccia in fase di perforazione: “il materiale fuso dal laser verrebbe polverizzato dai gas criogenici. Il cutting, ovvero il materiale di perforazione, verrebbe portato in superficie in forma liquida. La tecnologia è molto innovativa, finora l’abbiamo testata solo in laboratorio su campioni di roccia anche di grandi dimensioni. L’efficacia è notevole e la rapidità di perforazione significativa. La fase successiva del progetto prevede la sperimentazione sul campo, in una cava in Germania e nell’area di Abano e Montegrotto Terme, in provincia di Padova, un vero e proprio hot spot geotermico”.
Guardando ancora più avanti, la prospettiva è quella di intercettare temperature elevate vicine alla superficie e arrivare alla costruzione di un impianto pilota per la produzione di energia elettrica.
Gli hot spot geotermici in Italia
“Larderello, in Toscana, è stata la prima zona al mondo, nel 1904, a produrre energia elettrica geotermica. In Italia abbiamo una storia di primato a livello globale” ricorda Galgaro. “Quella è una zona molto vocata al geotermico, così come tutta la porzione occidentale dell’Italia centro-meridionale, quindi il Lazio, Ischia, Campi Flegrei e Vesuvio, fino alla zona etnea e delle Eolie. Ci sono vulcani sottomarini anche nel Tirreno meridionale, come Marsili”. Secondo Galgaro qui si stanno verificando condizioni simili a quelle che si ritrovano in Islanda: “siamo ancora in una fase embrionale, ma la crosta terrestre si sta assottigliando e il mantello fuso si avvicina alla superficie, portando molto calore”.
Un altro hot spot geotermico si ha a largo dell’Adriatico settentrionale, sia a Portogruaro sia a largo di Chioggia. “In questo caso le zone di interesse sono state individuate in pozzi scavati da Eni a scopi petroliferi negli anni ‘70. Anche nell’hinterland milanese la società aveva perforato dei pozzi negli anni ‘80 e in uno studio che abbiamo condotto in collaborazione proprio con Eni abbiamo trovato temperature ben superiori ai 100°C. La vicinanza a centri fortemente urbanizzati può rappresentare in questo caso un’opportunità per portare calore a un distretto abitato tramite sistemi di teleriscaldamento” sostiene Galgaro. Ma aggiunge: “l’accettabilità sociale di nuovi impianti è un problema che è legato a tutti i tipi di rinnovabili e che va affrontato con il coinvolgimento della popolazione locale in ogni fase di sviluppo del progetto, dalla sua concezione alla sua realizzazione, e magari anche tramite la distribuzione di utili nella forma di una comunità energetiche”.
Oggi sono attivi solo una piccola parte dei circa 2000 pozzi petroliferi e gasiferi che sono stati scavati nel corso del XX secolo in Italia. Alcuni di quelli inutilizzati possono venire usati per nuovi scopi, tra cui anche la ricerca di minerali critici alla transizione energetica. “Vi sono situazioni in cui la risorsa geotermica è ospitata all’interno di rocce già fratturate in cui circolano dei fluidi carichi di soluzioni minerarie. Tra questi minerali ci sono terre rare e litio, talvolta in concentrazioni notevoli, come nel Lazio settentrionale. Oggi si sta pensando allo sfruttamento di questi fluidi idrotermali, che hanno temperature interessanti, sia in ottica geotermica sia dal punto di vista minerario”.
Opportunità non sfruttate
Oggi il geotermico ha un peso piuttosto limitato nella produzione di energia elettrica in Italia e nel mondo. La zona italiana più produttiva, ovvero Larderello, raggiunge il 4% della produzione elettrica locale. “La geotermia è sempre stata la Cenerentola delle rinnovabili, ma la conoscenza e lo sviluppo della tecnologia potrebbe renderla un fattore importante nel futuro mix elettrico: potrebbe arrivare al 15% - 20% dell’energia sia elettrica sia termica dell’Europa” secondo Galgaro, “o al 10% di solo quella elettrica, che non è un fattore trascurabile”.
Oltre al fronte termo-elettrico, la tecnologia geotermica può dare un grande contribuito alla circolarità dell’economia. Un’enorme occasione si presenta proprio nel distretto termale ai piedi dei Colli Euganei, in provincia di Padova. Fino ad adesso però, non è stata sfruttata.
“In quest’area, le attività termali estraggono 14 milioni di metri cubi l’anno di acqua a temperatura media di 80° - 85°C, che viene scaricata a 50° - 55°C nei canali e nelle fognature” spiega Galgaro. “Non possono fare diversamente, perché i microrganismi con proprietà terapeutiche presenti nei fanghi, impiegati nei centri termali, non sopravvivono a temperature superiori ai 65°C. Occorre quindi consumare energia elettrica per raffreddare le acque. Quando viene poi scaricata è ancora troppo calda per essere usata ad altri scopi, come l’irrigazione. Anzi, l’unica cosa che un’acqua troppo calda fa crescere sono alghe ipertrofiche”.
L’impatto ambientale ed energetico di questo ciclo è notevole. “La mia idea è sempre stata quella di utilizzare la testa e la coda di questa risorsa, senza interferire con le attività terapeutiche e degli albergatori, ma dando un’opportunità alle comunità locali. Utilizzando l’acqua di scarto si potrebbe riscaldare tutta Abano, Galzignano, Battaglia e Montegrotto: circa 50.000 persone e tra le 15.000 e le 20.000 abitazioni. Sarebbe un contributo notevole alla decarbonizzazione della Regione”.
Per riversare le acque di scarto gli albergatori devono anche pagare una tassa ai comuni, che con queste risorse dovrebbero adeguare alle norme ambientali il sistema di scarico. “I comuni però non fanno le operazioni di adeguamento e gli albergatori di conseguenza non vogliono pagare la tassa. Sono arrivati al Consiglio di Stato per questa questione”.
Agli albergatori è stato proposto anche di entrare in un business con le multiutility, per trasformare lo scarto in risorsa energetica con cui riscaldare un’intera area di interesse turistico. “Sarebbe un vantaggio per tutti, sia sotto il profilo ambientale sia addirittura economico” sottolinea Galgaro. “Da anni però si incontra un’enorme resistenza al cambiamento, che poi è il principale problema di tutta la transizione energetica”.