Guerra ibrida e guerra cognitiva: Italia ed Europa al bivio
Quirinale, 17 novembre 2025: la riunione del Consiglio Supremo di Difesa
In un momento di tensioni globali serrate – con la guerra in Ucraina che al momento non mostra spiragli di tregua e un panorama europeo sempre più investito da sfide ibride – il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha convocato al Colle il Consiglio Supremo di Difesa: non un incontro formale ma un segnale politico potente, punto di svolta sulla strategia italiana in tema di sicurezza nazionale. Il messaggio è chiaro: Roma non solo conferma la sua solidarietà a Kyiv, ma rilancia una visione di difesa europea attiva, moderna e integrata.
Per capire cosa significhi oggi parlare di sicurezza nazionale, deterrenza e ruolo internazionale dell’Italia chiediamo una chiave di lettura a Marco Mondini, docente di storia contemporanea e di storia della guerra presso il Dipartimento SPGI dell’Università di Padova, tra i massimi esperti italiani di conflitti moderni e relazioni civili-militari e autore de Il ritorno della guerra. Combattere, uccidere e morire in Italia 1861-2023 (Il Mulino 2024).
Professor Mondini, abbiamo visto in TV il Presidente della Repubblica seduto al tavolo con ministri e vertici militari. Che messaggio si voleva dare?
Il Consiglio Supremo di Difesa è l’organo politico-istituzionale più importante quando si parla di sicurezza nazionale: lo presiede il Presidente della Repubblica, che è, per Costituzione, comandante supremo delle Forze armate. L’organo viene convocato regolarmente: la novità non è quindi la riunione in sé, ma il fatto che le sia stato concesso uno spazio mediatico davvero insolito. È stata annunciata con la settimana prima, anticipando i temi e creando una forte aspettativa: un atto dal forte valore politico e simbolico.
Perché?
Sul tavolo c’erano molti dossier, ma il tema principale era la guerra in Ucraina e soprattutto il sostegno dell’Italia a Kyiv. Un sostegno che, al di là delle polemiche, è stato significativo: forniture dirette di armi, contributi finanziari, partecipazione al cosiddetto Purl europeo.
Di cosa si tratta?
Il Purl è un meccanismo, invero piuttosto bizantino, pensato in origine per agire rapidamente: un gruppo di Paesi europei “volenterosi” – e l’Italia si è accodata, in maniera più o meno convinta – compra armamenti negli Stati Uniti per poi trasferirli all’Ucraina. Messa così sembra surreale: perché mai gli europei, che già faticano a finanziare la loro difesa, dovrebbero usare risorse per alimentare l’industria americana?
Qualcuno ha parlato di “trappola trumpiana”. In parte è vero: Trump vuole sempre guadagnarci. Ma c’è un tema più profondo di cui si parla poco: il fattore tempo.
Il riarmo nazionale o europeo non si improvvisa. Servono anni per progettare, investire, produrre sistemi d’arma complessi, mentre l’Ucraina ha bisogno di armi adesso. E quindi due piani – emergenza e strategia – devono procedere in parallelo.
Torniamo allo spazio mediatico dato al Consiglio Supremo di Difesa.
Io lo leggo come un segnale: una parte consistente della classe dirigente italiana sta maturando la consapevolezza che dobbiamo evitare il crollo dell’Ucraina e prepararci a un confronto con la Russia; larga parte dell’opinione pubblica rimane però scettica e disorientata, anche perché spesso disinformata o addirittura manipolata.
Con tutti i limiti del governo attuale, è innegabile che Presidente del Consiglio e Ministro della Difesa abbiano mantenuto una linea coerente nel sostegno all’Ucraina; nella stessa maggioranza c’è però anche chi rema in senso opposto, e lo stesso vale nell’opposizione. Soprattutto a sinistra c’è poi un’evidente difficoltà anche solo a pronunciare parole come “riarmo”: pesa una tradizione culturale di pacifismo, del tutto legittima ma che mal si concilia con la realtà che stiamo vivendo, con potenze esterne sempre più aggressive pronte a dividersi l’Europa.
Mattarella ha quindi cercato di “spostare il baricentro”?
Direi proprio di sì. L’enfasi mediatica e la chiarezza della posizione emersa dalla riunione rappresentano un assist di peso al governo, anche perché la Presidenza della Repubblica rimane l’unica istituzione che gode di un consenso davvero bipartisan. Il messaggio è stato inequivocabile: l’Italia è e resterà al fianco dell’Ucraina.
Questo rafforza il fronte pro-sostegno in Parlamento, ma non significa che l’opinione pubblica sia allineata. Al contrario: si sta ampliando il divario fra classe politica e Paese reale.
È un po’ come nel 1914-15, nella frattura tra interventisti e neutralisti?
Il paragone funziona solo in minima parte. All’epoca la maggioranza della popolazione era contraria all’intervento, ma era anche politicamente inerte. Socialisti e cattolici, assieme alla maggior parte della classe politica, erano neutralisti, ma le giovani élites urbane quasi interamente interventiste.
Oggi cosa c’è di diverso?
Un elemento nuovo potentissimo: la guerra cognitiva, uno dei temi che la Presidenza della Repubblica ha sottolineato con maggiore forza.
Con questa espressione non ci riferiamo solo alla russa dezinformatzija – che non a caso è un termine russo: deepfake, bot, fake news, attacchi coordinati sui social. Parliamo anche della capacità del Cremlino, con un vero e proprio salto di qualità rispetto ai vecchi sistemi di propaganda, di mobilitare o anestetizzare le emozioni pubbliche, favorendo ad esempio l’esplosione dell’indignazione su alcuni fronti, come Gaza, piuttosto che su altri.
C’è poi quella che io chiamo la legge di Sachs.
Intende Jeffrey Sachs, economista accusato di diffondere propaganda russa?
È l’esempio perfetto di come funziona il circuito mediatico italiano. Ha grande visibilità perché da tre anni dice ciò che una fetta di pubblico vuole sentirsi dire: che l’Occidente è colpevole, la Russia è stata provocata, Kyiv è un fantoccio della CIA e sta perdendo.
Non importa che queste affermazioni siano smentite da tutte le analisi serie; contano ascolti e comfort emotivo, secondo la logica descritta magistralmente da Neil Postman nel libro Divertirsi da morire: la tv non serve a informare, ma a rassicurarci nei nostri pregiudizi.
Tutto questo cos’ha a che fare con la guerra in Ucraina?
Teoricamente l’Ucraina avrebbe tutte le carte in regola per suscitare una forte mobilitazione emotiva. È stata aggredita, ingiustamente e senza alcuna provocazione, da un Paese molto più grande; la sua resistenza è portata avanti in larga parte da coscritti, uomini e donne spesso male armati che combattono per difendere le proprie case. Dall’altra parte c’è la Russia di Putin, che colpisce sistematicamente la popolazione civile, e che in alcuni casi – come a Bucha – compie massacri e crimini che rientrano nelle logiche genocidarie.
Eppure l’opinione pubblica non sembra mobilitarsi. Come mai?
Essenzialmente perché l’Ucraina è il laboratorio in cui la guerra convenzionale è tornata su vasta scala in Europa. E questo gli italiani non vogliono sentirlo, nemmeno immaginarlo.
Molti forse la sentono come un conflitto lontano, che non ci riguarda.
Eppure l’Ucraina è vicina, non lontana, Leopoli dista appena poche ore di macchina. E la guerra lì non è un “accidente esotico”: riguarda direttamente gli equilibri europei. Sostenere l’Ucraina significa accettare che il mondo pre-2022 non tornerà più. Significa investire in difesa, rinunciare ad altre spese, affrontare possibili sabotaggi, ammettere che l’Europa deve tornare a occuparsi di sicurezza, politica estera, deterrenza.
Si tratta certamente di un enorme cambiamento psicologico. Paesi come Danimarca, Svezia e Germania discutono di reintrodurre la coscrizione o rafforzare la riserva. Significa che il tempo delle illusioni è finito: stare in Europa non vuol più dire vivere fuori dalla storia.
Quali strumenti concreti ha oggi l’Unione Europea nei campi della guerra ibrida e cognitiva?
Qualcosa si sta muovendo. Sul piano dell’intelligence Ursula von der Leyen spinge più volte per un coordinamento europeo delle risorse, proprio perché quelle nazionali, prese singolarmente, sono frammentate e molto meno efficaci. Non è un caso che si discuta della creazione di un College europeo dell’intelligence, per formare professionalmente le nuove reclute in un contesto comune.
Altro tassello strategico riguarda l’autonomia satellitare, della quale l’Europa è carente e che è sempre più imprescindibile.
C’è poi il lavoro, molto più silenzioso, dell’Agenzia Europea di Difesa, che porta avanti 75 progetti di addestramento, ricerca e sviluppo, con particolare attenzione proprio alla guerra ibrida e informatica. È un settore in cui l’UE può già parlare con una voce sola, a differenza degli armamenti convenzionali, che restano perlopiù materia di sovranità nazionale e di accordi tra aziende, come dimostra l’intesa Leonardo – Rheinmetall.
In sintesi ci stiamo o no attrezzando?
Nel dominio convenzionale dipendiamo ancora molto dagli Stati Uniti. Sugli altri due terreni sui quali oggi si combattono i conflitti moderni – quello ibrido, fatta anche di sabotaggi e infiltrazioni, e quello cognitivo – dobbiamo semplicemente prendere atto che la guerra è già in corso, e da prima del 2022. Finché non accetteremo la nuova realtà resteremo vulnerabili.