SOCIETÀ

L’Algeria volta le spalle al presidente: l’affluenza si ferma al 23%

Diffidare delle apparenze è sempre un buon consiglio, soprattutto quando si tratta di politica. Prendiamo il caso dell’Algeria, dove sabato scorso, 7 settembre, si sono svolte le elezioni presidenziali. A vincerle, e non è stata certo una sorpresa, è stato il presidente uscente, Abdelmadjid Tebboune, con una percentuale degna dei più radicati regimi totalitari: 94,65%. Elezioni peraltro anticipate “d’ufficio” di tre mesi lo scorso marzo (inizialmente erano previste a dicembre) dallo stesso presidente, che non aveva ritenuto opportuno fornire, agli elettori algerini e alle opposizioni, plausibili ragioni per giustificare la decisione (c’è chi sostiene che abbia voluto rendere più complicato per i suoi avversari fare campagna elettorale in pieno agosto). Opposizioni che sabato scorso hanno raccolto appena briciole di consensi: il Mouvement de la Société pour la Paix (MSP, il principale partito islamista) ha ottenuto il 3,17% dei voti, mentre il Front des Forces Socialistes (FFS) ha preso il 2,16%. Dunque un trionfo per Tebboune, che è sostenuto dal Front de Liberation Nationale e più in generale dalle forze armate? Non proprio. Perché nonostante i continui appelli, soprattutto da parte del governo, le urne sono rimaste pressoché deserte: appena 5,6 milioni di votanti su oltre 24,3 milioni di elettori registrati (la popolazione complessiva dell’Algeria sfiora i 47 milioni, in rapidissima crescita demografica), per un’affluenza complessiva che si è fermata appena al 23%, ben al di sotto di quella, già imbarazzante, registrata nel 2019, quando i votanti furono il 39%, in un’elezione segnata da intense proteste, in gran parte pacifiche, e da un parziale boicottaggio (l’ex presidente Abdelaziz Bouteflika, che pretendeva di candidarsi a un quinto mandato, era stato spinto alle dimissioni dal movimento di protesta Hirak, la cosiddetta “révolution du sourire, la rivoluzione dei sorrisi): in quell’occasione Abdelmadjid Tebboune, che nel 2017 era stato nominato primo ministro dallo stesso Bouteflika, divenne presidente con il 58% delle preferenze.

Repressione sistematica del dissenso

Ma quando le percentuali di affluenza alle urne scendono a questi livelli il segnale è chiaro: la democrazia sta vacillando. Del resto anche Amnesty International aveva denunciato a gran voce, proprio all’inizio di quest’anno, che in Algeria i problemi stavano diventando assolutamente seri: «Dopo che il movimento di protesta Hirak era stato interrotto a causa del Covid-19, nel 2020, le autorità algerine hanno intensificato la repressione del dissenso pacifico. Centinaia di persone sono state arrestate e detenute arbitrariamente. Decine di manifestanti pacifici, giornalisti, attivisti e difensori dei diritti umani continuano a languire dietro le sbarre per aver criticato le autorità. È una tragedia - sottolineava Heba Morayef, direttrice regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord - che cinque anni dopo che i coraggiosi algerini sono scesi in piazza in massa per chiedere cambiamenti politici e riforme, le autorità abbiano continuato a condurre un’agghiacciante campagna di repressione. Le autorità algerine devono rilasciare immediatamente e incondizionatamente tutti coloro che sono detenuti solo per aver esercitato i loro diritti alla libertà di espressione, di riunione pacifica e di associazione. Devono garantire che i difensori dei diritti umani, i giornalisti, gli attivisti, i sindacalisti e altri siano in grado di esercitare i loro diritti ed esprimere liberamente opinioni critiche senza timore di rappresaglie».

Ancor più esplicito il giudizio degli analisti di Freedom House, che ogni anno stilano una classifica mondiale per valutare, in 210 nazioni, la qualità dell’accesso delle persone ai diritti politici e alle libertà civili: «Gli affari politici in Algeria - scrive Freedom House nell’ultimo rapporto - sono stati a lungo dominati da un’élite chiusa basata sull’esercito e sul partito di governo, il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN). Sebbene vi siano diversi partiti di opposizione in Parlamento, le elezioni sono distorte da brogli e i processi elettorali non sono trasparenti. Altre preoccupazioni includono la repressione delle proteste di piazza, le restrizioni legali alla libertà dei media e la corruzione dilagante. Il movimento di protesta Hirak, nel 2019, aveva fatto pressione sul regime affinché riformasse profondamente la sua politica, ma la repressione del dissenso negli anni successivi ha impedito il proseguimento delle manifestazioni su larga scala. Nell’aprile 2023 il Parlamento algerino ha approvato una legge che minaccia la libertà dei media imponendo ai giornalisti di ottenere un permesso di lavoro e autorizzando la magistratura a costringere i giornalisti a rivelare le loro fonti». E a proposito di giornalismo: l’organizzazione internazionale Reporters sans Frontières colloca l’Algeria al 136° posto su 180 paesi e territori nell’Indice mondiale del 2024 sulla libertà di stampa.

Le opposizioni accusano: elezioni farsa

E ora quella percentuale irrisoria del 23% di affluenza rischia di guastare un po’ i piani al presidente Tebboune, offrendo ai suoi avversari un argomento in più per agitare, magari non platealmente per evitare repressioni, la protesta e il dissenso: quello dell’elezione-farsa. Con il presidente della Commissione elettorale finito nel mirino sia dei leader dell’opposizione, sia dello stesso Tebboune, accusato di aver fornito dati falsi, o comunque contraddittori, proprio in merito all’affluenza, indicata in un primo momento attorno al 48% (confermando i sospetti che il governo volesse “gonfiare” quei numeri, proprio per ottenere una maggiore credibilità). Tebboune resta comunque saldamente in sella, circondato da una ristretta cerchia di fedelissimi in rappresentanza delle élite commerciali e industriali locali, spesso indicato come le pouvoir (il potere): dal suo consigliere responsabile degli Affari Giuridici, Boualem Boualem, da molti considerato come il vero “stratega”del governo e candidato fin da oggi alla successione di Tebboune, al suo consigliere più fidato, Kamel Sidi Said. Fino al “ministro della difesa”, il generale Boumediene Benattou, il capo, di fatto dell’intelligence algerina, il colonnello Mohamed Chafik Mesbah, e il responsabile di tutto ciò che attiene allo sviluppo petrolifero, l’ingegnere Amine Mazouzi. Con la loro “complicità”, l’attuale presidente proseguirà nel solco del suo programma basato sul doppio binario: da un lato con la repressione feroce di qualsiasi forma di dissenso (diversi sostenitori del presidente uscente sono arrivati a definire “terroristi” tutti coloro che si sono rifiutati di votare) e dall’altro con il concreto e generoso sostegno alla spesa sociale (sussidi statali su beni di largo consumo, istruzione, energia, alloggi, sanità e sostegno ai pensionati e alle persone con disabilità), il tutto basato sul crescente aumento delle entrate energetiche.

Boom demografico e crisi idrica

In campagna elettorale Tebboune si era anche spinto a promettere di aumentare gli stipendi e le pensioni, nella speranza di spingere più persone possibile a votarlo. Ma l’Algeria, la più grande nazione dell’Africa per superficie e la seconda per popolazione, sembra avergli voltato le spalle, con gli elettori evidentemente stufi di dover fare i conti quotidianamente con un costo della vita sempre più alto, con l’inflazione che sfiora il 10%, con il crollo del valore del dinaro algerino, con gli alti tassi di disoccupazione giovanile, mentre il disavanzo pubblico aumenta, così come la carenza d’infrastrutture. Vanno bene, anzi benissimo, le esportazioni di gas, soprattutto dopo l’invasione russa in Ucraina (l’Europa soprattutto ha individuato nel paese nordafricano l’alternativa perfetta per ridurre la dipendenza da Mosca), con la compagnia petrolifera e del gas statale Sonatrach che continua a firmare nuovi contratti di fornitura con i più importanti colossi europei e americani. Mentre arrancano i settori dell’industria e del turismo, che potrebbero invece offrire importanti (indispensabili) opportunità di occupazione. Perché alla fine rimane intatto il problema della “credibilità” di questo presidente, e di questo governo, che calpesta con ferocia i diritti di chi dissente (attuando l’arresto sistematico di chi osa protestare) e che non riesce a trovare risposte “strutturali” ai bisogni di una popolazione che cresce a ritmi vertiginosi (è quadruplicata dal 1960 a oggi, e si prevede che entro il 2049 raggiungerà quota 60 milioni) e che poco tollera le concentrazioni di potere, soprattutto mentre dilaga la povertà e la disoccupazione, in un crescendo di diseguaglianze sociali che sarà sempre più difficile gestire. Il prossimo anno si terranno le elezioni legislative: un appuntamento che per il presidente algerino potrebbe diventare uno snodo decisivo.

Mentre resta gravissima la crisi idrica che minaccia l’Algeria, effetto di una siccità pluriennale, con eccezionali ondate di caldo estremo, che ha via via prosciugato i bacini idrici. La situazione è critica soprattutto in alcune regioni desertiche del centro del paese, come nella città di Tiaret, dove lo scorso giugno sono scoppiate violente rivolte, con i quasi duecentomila abitanti rimasti completamente a secco di acqua potabile. Il governo sa che questo non è un problema marginale: e infatti sta investendo in mega progetti per la desalinizzazione delle acque di mare, per renderle potabili: come l’impianto di Cap Blanc, a ovest di Orano, 2,5 milioni di abitanti, che si affaccia sulla costa del Mediterraneo, un impianto ancora in costruzione, che dovrebbe entrare in funzione il prossimo dicembre. Poco più a est c’è l’impianto di Mostaganem, inaugurato nel 2011, che produce 200mila metri cubi di acqua potabile al giorno. Mentre un altro nuovo impianto è previsto a Khadra, che dovrebbe produrre 300mila metri cubi di acqua potabile al giorno, fornendo anche una protezione alla città contro il previsto innalzamento del livello del mare. Questi impianti, tutti assieme, dovrebbero coprire, nella migliore delle ipotesi, il 60% del fabbisogno del paese (per non parlare delle necessità industriali). Il resto dovrebbe essere ricavato dal trattamento delle acque reflue. Una strada in ripidissima salita, dai costi (anche ambientali) enormi.

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