SOCIETÀ
Nuova crisi politica in Francia: Macron davanti allo spettro del déjà vu

Augusto Casasoli/Foto A3/Contrasto
Siamo alle solite: con una puntualità che sfiora il cronometrico la Francia si trova in questi giorni di fine estate ad affrontare l’ennesima crisi di governo della sua storia più recente, con un debito pubblico sempre più fuori controllo e un Parlamento spaccato in tre blocchi chiaramente distinti e sempre meno amalgamabili, nessuno dei quali in grado di esprimere una maggioranza. Il giorno fatidico sarà lunedì prossimo, 8 settembre, quando il primo ministro François Bayrou si presenterà di fronte ai deputati dell’Assemblea Nazionale per chiedere un voto di fiducia al suo governo (di minoranza), che difficilmente arriverà. Una mossa della disperazione, che Bayrou ha tentato nella speranza di vedersi approvare la nuova legge di bilancio 2026 (in realtà un piano quadriennale) che punta a ridurre la spesa e il debito, ma che prevede tagli assai impopolari, come il mancato adeguamento delle pensioni e il congelamento delle prestazioni sociali (il che però, con l’inflazione, si tradurrà in una perdita di potere d’acquisto per la stragrande maggioranza della popolazione). Oltre alla cancellazione, non retribuita, di due giorni festivi («L’intera nazione deve lavorare di più», aveva tentato di motivare il primo ministro). La manovra, se approvata, dovrebbe portare alla Francia un risparmio di 43,8 miliardi di euro. «È in gioco la sopravvivenza stessa della Francia», ha drammatizzato Bayrou, nel tentativo di convincere i (tanti) parlamentari riottosi. «Il nostro Paese è in pericolo perché siamo sull’orlo del sovraindebitamento. Quando la casa sta bruciando o quando stai per affondare, devi riconoscere la gravità della situazione: e io non lascerò che il nostro paese affondi». Ma l’appello, almeno finora, non sembra aver prodotto effetti apprezzabili. Il leader di La France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon, ha già annunciato da tempo che il suo partito farà di tutto per far cadere Bayrou. Sulla stessa linea Verdi e, con ogni probabilità, Socialisti. Ma anche dall’estrema destra non arrivano buone notizie per Bayrou: il Rassemblement National non è disposto a lanciare ciambelle di salvataggio al primo ministro centrista. Anzi; è probabile che Marine Le Pen, nonostante sia stata condannata pochi mesi fa all’ineleggibilità per 5 anni, perché ritenuta colpevole di appropriazione indebita di fondi del Parlamento europeo, voglia approfittare della crisi attuale per chiedere a gran voce il ritorno alle urne, sperando che l’esasperazione dei francesi consegni prima o poi alle destre, se non a lei personalmente (vuol comunque presentare ricorso) le chiavi dell’Eliseo.
François Bayrou n’a visiblement pas compris que les Français ont pleinement conscience de la crise économique et financière dans laquelle est plongé notre pays après huit années de macronisme, crise qui s’ajoute à tant d’autres échecs mettant en péril la survie même de notre…
— Marine Le Pen (@MLP_officiel) August 25, 2025
Le tre strade di Macron
Se lunedì prossimo il governo Bayrou non dovesse ottenere la maggioranza in Parlamento, automaticamente cadrà. Quindi è assai probabile che la palla torni a Emmanuel Macron, che nel bene e nel male è ancora e sempre il vero protagonista della vita politica francese: tutti gli altri, almeno finora, sono state comparse. Sarà lui, qualora si trovasse a gestire l’ennesima crisi di governo (sta diventando un fastidioso déjà vu: dal 2017, anno del suo primo insediamento, ha già nominato 6 primi ministri, il prossimo sarebbe il settimo), a decidere il passo da compiere. E le strade che ha di fronte, sostanzialmente, sono tre: nominare un nuovo capo del governo (con quale sostegno parlamentare è tutto da vedere), indire nuove elezioni (assai rischiose: nel 2024, per respingere l’assalto dell’estrema destra, aveva incoraggiato il “patto di desistenza” per fare argine all’avanzata della destra, ma Macron aveva disatteso le aspettative del blocco di sinistra, che pure aveva vinto quelle elezioni, rifiutandosi di nominare un “loro” primo ministro, preferendone uno più a lui affine, appunto François Bayrou), oppure dimettersi, prima della naturale scadenza del suo mandato, nel 2027. Ipotesi, quest’ultima, assai improbabile. Dalle parole e dai gesti del presidente tutto sembra suggerire che tenterà in ogni modo di resistere all’ennesima tempesta. La portavoce del governo francese, Sophie Primas, dopo un incontro urgente all’Eliseo, ha riferito che «il presidente della Repubblica è in perfetta sintonia e accordo» con il capo del governo, che ha dunque il suo sostegno. Il quotidiano Politico indica comunque come possibili successori di Bayrou l’attuale ministro delle Forze armate, Sébastien Lecornu, e il ministro della Giustizia, Gérald Darmanin: «Ma cosa risolverebbe davvero l’ingresso di una nuova recluta? Un nuovo primo ministro sarà intrappolato esattamente nello stesso pantano. La politica francese sarà ancora troppo lacerata al suo interno per approvare riforme vitali per ridurre il deficit, nonostante gli avvertimenti di Bayrou, secondo cui la Francia potrebbe essere diretta verso una crisi del debito in stile greco se non attua un’impopolare stretta di bilancio da 43,8 miliardi di euro».
Che poi: nessuno nega la reale necessità di una correzione urgente e decisa dei conti pubblici francesi, che da tre decenni seguono implacabilmente una traiettoria ascendente. Soltanto nel primo trimestre del 2025, il debito pubblico francese è stato di 3.345,4 miliardi di euro, 40,2 miliardi di euro in più rispetto al trimestre precedente. La Francia è la seconda economia più grande della zona euro (dopo la Germania) ma è anche una delle nazioni più deboli in termini di deficit: il disavanzo pubblico della Francia (5,8% del PIL) è tra i peggiori della zona euro (peggio hanno fatto solo Romania e Polonia, i più virtuosi sono Danimarca e Irlanda). E l’obiettivo di Bayrou sarebbe quello di ridurre il deficit al 4,6% nel 2026 e sotto al 3% nel 2029. Ma quando viene presentato un programma finanziario che non soltanto taglia i servizi pubblici, ma che prevede come unica eccezione le spese per la difesa, che passerebbero da 59 a 67 miliardi di euro, con un incremento di 8 miliardi (secondo Macron «L’Europa sta affrontando la minaccia più grave dalla fine della seconda guerra mondiale»), ecco che quel piano diventa difficilmente digeribile, sia in Parlamento sia tra gli elettori. Nonostante la situazione sia effettivamente molto grave: nel primo trimestre del 2025, il debito pubblico francese è stato di 3.345,4 miliardi di euro, 40,2 miliardi di euro in più rispetto al trimestre precedente. Una crescita impressionante: c’è chi ha calcolato che ogni secondo il debito aumenta di circa 5.000 euro, o se preferite 300.000 euro al minuto (qui l’aggiornamento in tempo reale, e fa impressione vedere a quale velocità scorrono le cifre).
Notre force est supérieure lorsqu'elle est collective. Nous devons faire plus pour notre défense, en Européens. pic.twitter.com/m6IpiYPGGu
— Emmanuel Macron (@EmmanuelMacron) July 13, 2025
Un 10 settembre ad alto rischio
Insomma: Macron sembra essere finito ancora una volta in un cul de sac, in una situazione di stallo senza via d’uscita. Anche perché sono in molti a puntare il dito proprio contro di lui, individuandolo (non senza ragioni) come il vero responsabile della situazione attuale. Al punto che il leader della sinistra, Jean-Luc Mélenchon, ha chiesto direttamente le dimissioni del presidente, qualora le cose andassero come tutti si aspettano, nel voto dell’8 settembre: «Dobbiamo impedire al signor Macron di nominare di nuovo un primo ministro che farebbe la stessa politica. Ecco perché deve essere rimosso. Il caos è Macron». E sta dilagando, soprattutto attraverso i social, un appello lanciato dal movimento “Bloquons tout” (blocchiamo tutto) per una “chiusura totale, generale e illimitata del Paese dal 10 settembre 2025”. Il messaggio, rilanciato inizialmente anche da account vicini all’estrema destra ma che in realtà si è diffuso trasversalmente e senza una netta colorazione politica, recita così: “Noi, cittadini esausti e invisibili, spremuti come limoni, dichiariamo di smettere di far funzionare una macchina che ci schiaccia. Dobbiamo dire basta all’austerità di Bayrou. Non abbiamo più nulla da perdere, ma tutto da guadagnare”. Manifestazioni (con l’hashtag #Mobilisation10Septembre) sono già annunciate, contemporaneamente, a Lille, Parigi, Rennes, Nantes, Lione, Bordeaux, Tolosa, Avignone e Marsiglia. Sono previsti blocchi stradali, con gravi disagi nel settore dei trasporti, e anche un “boicottaggio dei supermercati”. Una sorta di riedizione dei “Gilets jaunes”, il movimento dei Gilet gialli che tra il 2018 e il 2019 portò a manifestazioni di protesta e scontri in tutto il paese. Esplicito il sostegno di Mélenchon: «Il 10 settembre deve essere un giorno di sciopero generale». Più cauta la posizione dei sindacati, soprattutto della Confédération générale du travail (CGT), che resta “molto vigile sui tentativi di infiltrazioni, con l’estrema destra che, in alcuni luoghi, sta cercando di sviluppare un discorso antisindacale o di indirizzarlo contro gli immigrati”. Nelle ultime ore anche il Rassemblement National ha preso le distanze dal movimento, soprattutto dopo che alcuni esponenti dell’estrema sinistra hanno proposto di “prendere d’assalto le Prefetture”. «Quando vuoi esprimere la tua rabbia, usi il modo più democratico possibile: voti», ha commentato Jordan Bardella, giovane presidente del Rassemblement National. Dunque “sostegno”, ma non partecipazione da parte dell’estrema destra. Critico verso il movimento anche il ministro dell’Interno, il repubblicano Bruno Retailleau: «Capisco l’esasperazione dei francesi che non sono responsabili dell’esplosione del debito. Ma bloccare tutto è peggio di qualsiasi altra cosa. Perché il Paese deve andare avanti», ha scritto in un lungo post su Facebook.
Così il presidente Macron si trova realmente stretto in un angolo: costretto a fronteggiare lo spettro di un movimento sociale su larga scala e con una legge di bilancio che probabilmente dovrà essere riscritta e comunque approvata entro il prossimo 31 dicembre. Come dire: tirare dritto e fingere che il problema non esista non è detto che sia la migliore strategia. Oltretutto con un indice di popolarità che sta ormai precipitando. Secondo l’istituto Elabe il presidente, nonostante il suo attivismo in politica estera, è scivolato al 21% di gradimento. Peggio di lui fa soltanto l’attuale primo ministro Bayrou, con appena il 12% di giudizi favorevoli, che pure coltivava il sogno di candidarsi, un domani, alla presidenza: con questi numeri è improbabile che riuscirà a fare molta strada.