Una gara di atletica leggera alle Paralimpiadi di Parigi. Foto: Reuters
Ogni quattro anni, nella stagione estiva, la nostra attenzione è calamitata dalla più importante manifestazione sportiva al mondo: i giochi olimpici. In occasione dell’evento, la città prescelta diventa una vera e propria capitale dello sport e accoglie i campioni più stimati di svariate discipline. Quest’anno – tra competizioni spettacolari e questioni sociali e politiche, che certo non sono mancate – i giochi si sono svolti a Parigi, e sono terminati da qualche settimana.
In questi giorni, invece, si stanno disputando, sempre a Parigi, i giochi paralimpici, che sono l’equivalente delle olimpiadi per chi ha una disabilità fisica, sensoriale o psichica. Già dal termine paralimpiadi si può dedurre la rilevanza che questo evento ha assunto nel corso del tempo: para, infatti, è un prefisso che significa accanto, parallelo, e che sta ad indicare che queste competizioni non sono secondarie, ma hanno lo stesso valore delle olimpiadi. Ne sono prova i circa 75 mila spettatori della cerimonia di apertura dei giochi di Parigi, che testimoniano quanto il prestigio delle Paralimpiadi sia cresciuto negli anni. Tuttavia, convincere la società che le persone con disabilità sono in grado di fare sport e di diventare atleti con le stesse potenzialità degli altri non è stato semplice, e ancora oggi il percorso per essere considerati alla pari dei propri colleghi normodotati non è compiuto.
Il primo ad aprire la strada verso questi giochi inclusivi fu Ludwig Gutmann, un neurologo ebreo tedesco che, nel 1939, fuggì dalla Germania verso l’Inghilterra per sfuggire alle persecuzioni naziste. Nel 1944, il neurologo divenne direttore del centro per le lesioni spinali di Stoke Mandeville, istituito a causa del forte afflusso di feriti di guerra paralizzati. Gutmann comprese subito che le cure riservate alle persone con paraplegia erano antiquate e inadeguate: infatti, spesso i pazienti venivano trattati solo con terapie palliative, ed erano costretti a rimanere immobili; perciò, in alcuni casi, ad essere pericolose erano le piaghe da decubito, più che le ferite in quanto tali. Così, Gutmann iniziò dapprima a spostarli regolarmente, e poi a spronarli al movimento e all’attività sportiva; infatti, riteneva che lo sport fosse fondamentale affinché le persone con disabilità fisica sviluppassero forza e resistenza e migliorassero la propria percezione di sé e delle proprie capacità. I pazienti smisero di essere passivi, non erano più malati che non potevano fare nulla se non ricevere le cure a loro destinate; divennero, invece, persone attive, grazie alle diverse iniziative che Gutmann realizzò all’interno dell’ospedale di Stoke Mandeville: furono istituiti laboratori di falegnameria e dattilografia, e i pazienti poterono cimentarsi in diversi sport, tra cui il tiro con l’arco.
I saluti finali post partita di tennis nel centrale di Roland Garros. Foto: Reuters
Nel 1948, le idee di Gutmann ottennero un primo importante risultato: il 29 luglio, in concomitanza con la cerimonia di apertura delle olimpiadi di Londra, il neurologo organizzò, a Stoke Mandeville, una piccola competizione di tiro con l’arco per veterani di guerra con lesioni al midollo spinale, che vide la partecipazione di 16 persone, 14 uomini e 2 donne. Questo evento si ampliò notevolmente negli anni successivi. Dal 1952, infatti, i giochi di Stoke Mandeville per persone con disabilità si svolsero regolarmente, e crebbero nel tempo fino ad includere 130 atleti internazionali, cosa che impressionò molto l’opinione pubblica e i dirigenti olimpici.
In seguito, il centro di questo cambiamento nella concezione dell’attività sportiva si spostò in Italia. Qui, fondamentale fu la figura di Antonio Maglio, un medico dell’Inail, l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. A lui fu affidata la gestione del centro paraplegici di Ostia villa Marina, la cui attività prese il via nel giugno 1957. Maglio ebbe un intenso e proficuo rapporto di scambio con Gutmann, dal quale apprese approcci e metodi terapeutici. Anche lui era convinto che lo sport avesse un ruolo centrale nella riabilitazione delle persone con disabilità, perciò si adoperò fortemente affinché Roma, che avrebbe ospitato le olimpiadi nel 1960, accogliesse anche i giochi di Stoke Mandeville. Grazie anche al suo prestigio, Maglio ottenne l’appoggio delle autorità politiche; così, nel 1960 le due manifestazioni sportive si svolsero nello stesso luogo per la prima volta.
Tuttavia, inizialmente, alcuni paesi accolsero con perplessità questa nuova organizzazione: nel 1968, per esempio, Città del Messico, in cui si disputavano le olimpiadi, non consentì lo svolgimento dei giochi per persone con disabilità, apparentemente a causa di difficoltà tecniche. Questa motivazione rivelava che i pregiudizi nei confronti di questi atleti erano ancora molto presenti, e che alcuni governi erano riluttanti ad accoglierli e ad adattarsi alle loro necessità. I giochi si svolsero comunque a Tel Aviv e la crescita del movimento paralimpico non si arrestò. Infatti, negli anni le gare continuarono con una partecipazione sempre maggiore e, nel 1976, i giochi si aprirono anche ad altre disabilità, come quella visiva.
Fu dal 1988, a Seoul, che le olimpiadi e le Paralimpiadi cominciarono a disputarsi abitualmente in parallelo. In quell’occasione, i numeri dei giochi paralimpici superarono ogni record: i partecipanti furono 3.057, provenienti da 61 paesi, e le discipline sportive presenti furono 18, tra cui il basket, l’atletica e il nuoto. Nel 1989 fu istituito il comitato paralimpico internazionale, che, ancora oggi, organizza e gestisce le Paralimpiadi estive e invernali.
Attualmente, l’importanza di questo evento è riconosciuta da tutti, nonostante permangano problemi e pregiudizi: le competizioni, infatti, sono spesso meno seguite dal pubblico e dai media, o vengono oscurate dalle gare olimpiche. Tuttavia, i mezzi di comunicazione, oltre alla divulgazione e agli appelli delle stesse persone con disabilità, hanno fatto molto per contrastare i preconcetti ancora presenti: in particolare, hanno scardinato l’idea che lo sport sia per pochi, e non per tutti. Ha avuto ampia diffusione, ad esempio, Rising Phoenix, un documentario uscito su Netflix nel 2020 che racconta le storie di nove atleti con disabilità motorie: in modo diretto e con un pizzico di ironia, le loro vicende mostrano che fare sport per chi ha una disabilità non vuol dire compiere imprese da supereroe o mostrare una forza speciale, un superpotere sconosciuto e ineguagliabile, come spesso ritiene l’immaginario comune, ma, allo stesso modo di qualsiasi atleta, allenarsi con costanza e tenacia per raggiungere risultati importanti e straordinari.