SOCIETÀ

Lo spirito di Osimo, tra diplomazia e memoria

Non una ‘resa’ italiana alla Jugoslavia di un Tito sul viale del tramonto ma ancora molto combattivo: piuttosto il frutto di un atteggiamento costruttivo e lungimirante, tra due Stati che appena pochi anni prima erano arrivati quasi a spararsi addosso, e che da allora sarebbe diventati partner sempre più stretti. Fino a quando, pochi anni più tardi, il crollo del blocco sovietico avrebbe scosso entrambi.

Ha ricordato così il presidente della Repubblica la firma, il 10 novembre 1975, del trattato di Osimo, che a 30 anni dalla fine della guerra diede una sistemazione definitiva, dal punto di vista internazionale, alla questione di Trieste. “La buona volontà delle parti, riflessa nell’accordo, ha consentito di chiudere in quelle aree uno dei passaggi più amari della recente storia italiana – ha detto Sergio Mattarella –, trasformandole, nel giro di pochi anni, da pagina dolorosa a confine il più aperto d’Europa e da luogo di aspra contrapposizione a luogo di cooperazione, consolidato, in seguito, dalla comune appartenenza con Slovenia e Croazia alla Unione Europea”.

Un giudizio condiviso da Benedetto Zaccaria, storico contemporaneista presso l’Università di Padova e autore di La strada per Osimo. Italia e Jugoslavia allo specchio (1965-1975), volume pubblicato da Franco Angeli nel 2018. “Il presidente fa bene a riportare la discussione al senso storico – spiega lo storico a Il Bo Live –. Osimo non è un gesto di debolezza gratuita, quanto piuttosto il punto d’equilibrio tra due Stati fragili, che in quel momento hanno bisogno l’uno dell’altro molto più di quanto vogliano ammettere”.

La storia che porta a quell’accordo affonda le radici nell’immediato dopoguerra, quando il confine orientale è a lungo un tema esplosivo. “In Italia nessun partito vuole esporsi – continua Zaccaria – la questione può costare consenso e il clima politico è tutt’altro che favorevole a scelte nette”. Dopo la crisi del 1953, quando si sfiora addirittura uno scontro armato tra Italia e Jugoslavia, il Memorandum di Londra del 1954 congela la situazione: Trieste torna sotto amministrazione italiana, la Zona B sotto controllo jugoslavo. “Una soluzione nei fatti, ma non dal punto di vista del diritto diritto. E l’idea, ventilata da alcuni, che l’Italia possa ottenere anche la Zona B appare da subito del tutto irrealistica: le truppe jugoslave hanno già occupato Trieste nel 1945 e persino gli Alleati hanno faticato a farle arretrare”. Per questo il Memorandum, visto come un ritorno della città giuliana alla madrepatria, in Italia viene festeggiato come un successo.

Negli anni successivi i contatti tra Roma e Belgrado si intensificano, tra incontri al vertice e scambi commerciali. Aldo Moro visita Belgrado nel 1965 mentre Tito è a Roma nel 1971; la svolta decisiva arriva però nel 1968 con la Primavera di Praga: per lo studioso “l’Italia teme l’espansionismo sovietico, la Jugoslavia di essere il prossimo obiettivo di Brežnev. Si paventa che l’Armata rossa continui la marcia in Romania e poi verso la stessa Jugoslavia, i due regimi comunisti ‘eretici’. Si apre così un canale diplomatico segreto: l’Italia garantisce informalmente che lascerà stare il confine occidentale, permettendo all’esercito jugoslavo di concentrare le proprie truppe a est”.

Confini porosi, cooperazione crescente

Punti deboli dei rispettivi blocchi, Roma vuole una Jugoslavia stabile e anti-sovietica, anche se comunista; Belgrado teme invece una possibile deriva autoritaria italiana, un ‘nuovo Cile’ europeo. “E come se entrambe le parti si specchino nelle rispettive fragilità”, sottolinea Zaccaria.

I negoziati si svolsero per dare un assetto definitivo ai confini si svolgono lontano dai riflettori, tra luglio e novembre 1974, mentre l’anno successivo il trattato viene presentato al parlamento italiano. “L’opinione pubblica reagisce tiepidamente – osserva lo storico – la tensione immediata del dopoguerra si è ormai raffreddata. L’accordo non nasce quindi da pressioni esterne, ma da un confronto pragmatico tra due regimi che cercano in qualche modo di sostenersi a vicenda”.

Con la firma dei trattati nella città marchigiana, scelta proprio per dare all’evento la minore pubblicità possibile, Italia e Jugoslavia smettono di guardarsi in cagnesco per diventare partner. Una trasformazione profonda che si riflette anche sul confine, che invece di irrigidirsi negli anni successivi si apre sempre di più: è proprio questo il tema di una recente mostra documentaria (disponibile anche in versione digitale) allestita nell’ambito di Gorizia/Nova Gorica Capitale europea della cultura, alla cui preparazione ha partecipato lo stesso Zaccaria. “Non dobbiamo leggere la storia solo dal punto di vista dei muri: qui, a differenza che a Berlino, durante la Guerra fredda i confini si fanno sempre più porosi. Già negli anni Cinquanta esistono micro-accordi locali per chi deve attraversare la linea di demarcazione per ragioni familiari o di lavoro: ci sono fiere, scambi, una circolazione quotidiana che non si interrompe mai”.

Una logica di cooperazione che trova un consolidamento nel 1978, quando a Venezia nasce la comunità Alpe-Adria: un laboratorio pionieristico di diplomazia dal basso che mette insieme regioni italiane, länder austriaci e repubbliche jugoslave. La neonata Regione Veneto, istituita solo pochi anni prima, vi assume da subito un ruolo di primo piano, contribuendo a ridefinire le relazioni dell’intero Nordest con l’altra sponda dell’Adriatico.

La comunità Alpe-Adria continuerà a giocare un ruolo decisivo anche nella delicata fase della dissoluzione della Jugoslavia, tra il 1990 e il 1991: in quegli anni le regioni del Nordest, forti di relazioni ormai consolidate con i vicini sloveni e croati, spingono il governo di Roma – inizialmente molto prudente – a sostenere i processi di indipendenza di Lubiana e Zagabria. Una vicenda affrontata nel volume L’Italia e le guerre jugoslave. Reti solidali, società civile, istituzioni, curato da Eloisa Betti e Benedetto Zaccaria e pubblicato quest’anno da Carocci.

Con il crollo della Federazione molti temono che il trattato di Osimo venga rimesso in discussione: “In realtà la sua eredità più preziosa è proprio quella di impedire che si riapra una ferita internazionale – chiarisce Zaccaria –. Senza Osimo, il confine orientale potrebbe tornare un punto di tensione nel momento in cui tutti i confini dell’ex Jugoslavia erano in movimento”. È ciò che già negli anni Ottanta si chiama spirito di Osimo: non soltanto un accordo ma un approccio, un metodo di cooperazione capace di resistere ai mutamenti della storia.

Memorie contese e prospettive europee

Oggi, con Slovenia e Croazia pienamente integrate nell’Unione Europea, l’Adriatico è soprattutto un terreno di cooperazione economica, culturale e infrastrutturale. Le relazioni bilaterali sono solide, il confine che per decenni è stato percepito come una linea di frizione è ormai parte di uno spazio comune. Eppure, a intervalli regolari, riaffiorano tensioni legate alla memoria del Novecento, una memoria che non è stata soltanto di incontro ma anche di conflitto.

I dolorosi ricordi delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata – che hanno portato nel 2004 all’istituzione del Giorno del Ricordo – mostrano quanto questo nodo resti sensibile nel dibattito pubblico, con il rischio – richiamato da diversi studiosi – che faziosità e divisioni finiscano per sovrapporsi alla ricerca storica. Tensioni periodiche che mostrano quanto sia delicato il terreno della memoria, ma anche quanto sia importante il ruolo delle istituzioni nel disinnescare gli attriti. Come quando, nel 2020, quando il presidente Sergio Mattarella e il capo di Stato slovenoBorut Pahor hanno visitato insieme il rinato Narodni dom di Trieste, simbolo dell’oppressione e della resilienza della comunità slovena. Un gesto che ha contribuito riaffermare l’idea che la memoria può essere uno strumento di riconciliazione, oltre che di conflitto. Per Zaccaria "non si tratta di costruire artificialmente un’unica narrazione, quanto di riconoscere che, nel secondo Novecento, l’Adriatico è stato più uno spazio di riavvicinamento che di divisione".

Da questo punto di vista l’accordo italo-jugoslavo emerge dunque come punto di riferimento valido anche oggi, soprattutto in un’area delicata come i Balcani: "Osimo non è solo un trattato – conclude Zaccaria –, è un metodo che ha impedito nuove fratture, creando uno spazio di cooperazione duraturo".

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