UNIVERSITÀ E SCUOLA
Sopra ogni altra libertà: apprendere, parlare e discutere secondo coscienza
di Carlo Fumian
Un momento del corteo della cerimonia di inaugurazione dell'anno accademico. Foto di Andrea De Padova
Difficile immaginare onore più alto e, al tempo, compito più arduo: estrarre in una manciata di minuti l’essenza di ottocento anni di storia, di pensiero, di scienza, di cultura. Non vi è dubbio che questa essenza sia la libertà, ma essa si è arricchita in otto secoli di significati profondamente diversi, ha attraversato momenti oscuri e gloriosi, svelando il suo più caratteristico connotato storico: la fragilità.
È a tutti noto che l’Università di Padova nacque da una diaspora bolognese: una sorta di partenogenesi che racconta l’origine di alcune tra le più antiche università proprio alla luce dell’anelito di libertà di piccole e assai mobili comunità di studenti e docenti. Da quei primi irrequieti fermenti aurorali, tra cui era Padova, un moto inarrestabile: già alla fine del XVIII secolo si contano in Europa ben 143 università, oggi nel mondo vi sono circa 31.000 Institutions of higher learning.
Un successo in parte misterioso: un medievista di rango ammetteva che “la forma corporativa o associativa” assunta dalle Università fra secolo XII e XIII non avrebbe potuto, da sola, spiegarne il successo, “e nemmeno rendere ragione della capacità di tenuta di cui in genere dettero prova nei confronti del Potere”, anche se la loro dimensione «pubblica» ma non «statale» credo abbia rappresentato il primo baluardo della Libertas.
Se dunque è vero che la storia dell’Università incarna l’esperienza culturale più longeva e di maggior successo della storia intellettuale umana, è altrettanto vero che essa è segnata da una crudele tensione tra autorità e sapere, tra scienza e 2 potere, tra trasgressione e conformismo, tra ribellione intellettuale e persecuzione, tra genialità e servile obbedienza, tra dogma e libertà di pensiero (una “dimensione” dello spirito umano che ha anch’essa una sua storia e non è data).
Una tensione che nel quadro della Repubblica Veneta, nei secoli centrali della storia dell’Università di Padova, darà vita a una sorta di proficuo paradosso, per la Patavina libertas, tra la “tutela” e la “distanza” (del e dal Potere della Serenissima): pur considerando Galileo come il punto di svolta, è stato osservato, ciò che Parigi era stata nel XIII secolo, e Oxford e nel XIV,
Padova divenne nel XV: il centro in cui le idee di tutta l’Europa si univano in un corpo di conoscenze organizzato e cumulativo. [...] La concezione della natura della scienza, [...] tramandata da Galileo ai suoi successori, appare piuttosto come il culmine degli sforzi cooperativi di dieci generazioni di scienziati [...]. Per tre secoli i filosofi naturalisti della scuola padovana, in fruttuoso commercio con i medici della sua facoltà di medicina, si sono dedicati a criticare e ampliare questa concezione e questo metodo, e a fondarlo saldamente nell’attenta analisi dell’esperienza (John Herman Randall, Jr.).
Qualche secolo dopo la creazione di questo fertile “nuovo mondo intellettuale”, in cui la lettura si fece lezione, le università europee sono protagoniste di un’ulteriore rivoluzione culturale, radicata in un grande trauma davvero epocale: quando William Gilbert compone il De Magnete (1600), Francis Bacon la Nuova Atlantide (1626), e a Padova Harvey, Vesalio e Galileo rivoluzionano la scienza medica e l’astronomia, il mondo è proiettato in una dimensione completamente nuova in cui
l’autorità dei testi antichi non offriva più un fondamento affidabile per le loro conoscenze. Le altre grandi civiltà non subirono alcun trauma del genere. [...] Così gli europei, più di ogni grande civiltà, scoprirono improvvisamente che la tradizione classica che avevano cercato di seguire doveva ora essere respinta se volevano comprendere la vera natura del proprio mondo e del proprio universo (Jack Goldstone, Perché l’Europa? L’ascesa dell’Occidente nella storia mondiale 1500-1850, il Mulino, Bologna 2010, pp. 212-3).
Per farlo, bisognava sfuggire, sulle orme di Giovanni di Salisbury – filosofo e prelato inglese del XII secolo –, il vizio peggiore degli studiosi e dei professori: la vanità, maestra di arroganza e conformismo. Tornando a Parigi dopo dodici anni di assenza, egli trovò i vecchi compagni “che c’erano prima e dove erano prima [...]. Avevano fatto progressi in un punto solo: avevano disimparato la moderazione e non conoscevano la modestia, di modo che si poteva disperare che si ravvedessero”.
Foto di Massimo Pistore
Umiltà invece si addice a chi pratica un mestiere tra i più affascinanti, a contatto con la ricerca della verità o meglio dei suoi plurimi risultati, che posa su fragili palafitte: una, forse la principale, consiste in quella “probità intellettuale” che Max Weber individuava come componente cruciale della professionalità scientifica moderna (o se si vuole, in una qualche aggiornata forma di parresia, ovvero nel coraggio di dire la verità al “tiranno”).
Questa stessa probità ci obbliga a ricordare che il motto Universa universis patavina libertas, che sembra innervare otto secoli di storia, è recente. Creato in tarda epoca fascista e con ogni probabilità coniato da Concetto Marchesi, su richiesta del rettore Carlo Anti.
Al di là della sua felice musicalità, con questo motto così limpidamente “classico” Marchesi seppe non già “inventare” una tradizione ma svelare una verità vissuta.
Seguendo il filo della Patavina libertas, rovesciamo allora la prospettiva e partiamo dal Novecento. Ecco un esempio della lezione di libertà che Concetto Marchesi sapeva impartire, pur nel soffocante clima della retorica fascista. Echeggiando il celebre discorso mussoliniano sul «bivacco dei manipoli» seguito all’insediamento del suo governo dopo la Marcia su Roma, Marchesi scrive nel 1933:
Un’assemblea legislativa che non possa esercitare la sua sovranità nell’ordinamento dello Stato è solo una assemblea di funzionari, di sudditi e d’intriganti: e in tali condizioni una caserma di pretoriani è più potente del Senato di Roma. […] Basta un manipolo di soldati intorno alla curia perché tutte le bocche si aprano nell’acclamazione cortigiana e qualche bocca si chiuda. È il tempo della viltà eloquente e della collera muta.
Il tempo del muto coraggio e della collera eloquente verrà dieci anni più tardi, scandito dalla creazione del Comitato di liberazione subito dopo l’8 settembre, dalla memorabile inaugurazione dell’anno accademico del novembre 1943 – in nome non già del re o del duce ma di un’Italia “dei lavoratori, degli artisti, degli scienziati” – e infine dal lancio del primo appello alla lotta armata contro nazisti e fascisti rivolto alla gioventù italiana da un rettore che a 64 anni infila una pistola in tasca, entra in clandestinità, raggiunge la Svizzera e da lì intrattiene i contatti tra la Resistenza veneta e gli alleati. Qui, in queste stanze, si guidava la Resistenza, grazie a uomini come Egidio Meneghetti (ma potrei citare decine di nomi); una guida politica ma anche militare, si badi bene, il che verrà riconosciuto dal conferimento a una Università, caso unico in Italia e forse in Europa, della medaglia d’oro al valor militare.
Andando a ritroso lungo il filo della Libertas, molto vi sarebbe da dire su quel cruciale momento di svolta rappresentato dall’8 febbraio 1848 e la sua dimensione pre-insurrezionale in cui l’Università, in particolare i suoi studenti, seppero essere fulcro di un’inedita alleanza politica con la città e aprire nel Nord Italia le ostilità antiaustriache ben prima di Milano e Venezia (e soprattutto ben prima che la rivoluzione incendiasse anche Vienna).
Della tempesta rivoluzionaria deflagrata nei primi mesi del 1848 i moti padovani sono certamente un episodio minore, ma ricco di significati peculiari, essenziali per interpretare la “rivoluzione italiana”, e certamente un momento fondativo dell’identità dell’Università di Padova in età contemporanea, perché “segna l’inizio di una tradizione di impegno civile, che è singolare carattere distintivo della sua storia”.
Che Padova fosse stata l’unica università europea della prima età moderna a rivendicare “la libertà come nucleo della propria identità pubblica” verrà confermato dalla laurea conferita in filosofia a Elena Lucrezia Cornaro Piscopia nel 1678 (a Utrecht nel 1636 era stato concesso alla filosofa, teologa e scienziata olandese Anna Maria van Schurman di seguire le lezioni da una speciale nicchia protetta da una tenda, ma non di laurearsi15). Vasto e profondo fu lo scalpore per la laurea padovana, ma le speranze di molte studiose europee andarono deluse: solo cinquant’anni dopo Laura Bassi poté laurearsi in filosofia a Bologna, con l’appoggio del papa Benedetto XIV, che offrì anche una cattedra di matematica a Gaetana Agnesi. Solo “il cielo è il limite”, non le umane convenzioni, sosteneva Anna Maria van Schurman, rivendicando il pieno diritto delle donne all’eguaglianza nel campo dell’istruzione. Ecco un campo di ricerca e di azione civile e politica in cui l’Università potrà eccellere e farsi guida: la conquista di una vera Libertas femminile.
Al cielo guardava, in altre forme, Galileo Galilei, e qui limitiamoci a ricordare il rabbioso rammarico del filosofo Cesare Cremonini alla sua partenza per Firenze: “Oh quanto harrebbe fatto bene anco il Signor Galilei, non entrare in queste girandole, e non lasciar la libertà Patavina!”; o ancora l’invidiata e temuta tolleranza che fece di Padova luogo di accoglienza e di formazione per numerosissimi studenti ebrei, protestanti, ortodossi, per lo più raccolti nelle loro rumorose e numerose nationes. Non sorprende allora che un viaggiatore inglese, Thomas Coryat, annotasse nel 1608 di aver incontrato più studenti stranieri a Padova che in qualunque altra università della cristianità.
A ricordarci che di questa lotta per la libertà l’Università di Padova ha scritto nobili pagine basti infine una breve nota a commento di un brano del libro di John Bury sulla Storia della libertà di pensiero: “più che ogni altra fu l’Università di Padova a produrre uomini e a incrementare scuole di pensiero che condussero alla rivoluzione scientifica dei secoli sedicesimo e diciassettesimo. L’università era in mano ai laici e venne derisa dagli umanisti per il suo aristotelismo averroistico. Essa rispose sviluppando un nuovo umanesimo scientifico”.
Un nuovo umanesimo scientifico, sobrio e “desideroso di trovare un modo di vivere basato sulla natura dell’uomo stesso, l’umana comunità nell’intelletto e nella verità”: ecco cosa incarnava “la saggezza della lunga tradizione padovana”.
Ammiratore di Galileo e Paolo Sarpi, nella sua appassionata difesa della libertà di stampa del 1644, John Milton pose la libertà di pensiero al di sopra della libertà civile: “Sopra ogni altra libertà concedetemi quella di apprendere, di parlare 6 e di discutere liberamente secondo coscienza. [...] Se le acque della verità non fluiscono in un movimento perpetuo, si corromperanno nella palude fangosa del conformismo e della tradizione”. E ancora:
Chi uccide un uomo uccide una creatura ragionevole, immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa, uccide l’immagine di Dio nella sua stessa essenza. [...] un buon libro è il prezioso sangue vitale di uno spirito sommo, [...] custodito gelosamente per una vita oltre la vita.
La storia del primo Novecento, età di tirannie, genocidi e roghi di libri, inviterà a maggior prudenza. Isaiah Berlin, che per tutta la vita fece della libertà il suo principale terreno d’indagine, discutendo nel 1959 di John Stuart Mill si era chiesto, ponendo a noi – ancor oggi – un quesito drammatico, a cui la comunità scientifica deve rispondere:
È proprio tanto chiaro che si debba lasciare libero corso alle opinioni che sostengono, per esempio, l’odio razziale, solo perché Milton ha detto che “anche se tutti i venti della dottrina sono lasciati liberi di scatenarsi sulla terra [...] chi mai ha sentito dire che la Verità abbia avuto la peggio in uno scontro libero e aperto?”. Queste sono parole piene di coraggio e di ottimismo, ma quanto vale oggi l’evidenza empirica a loro favore? Forse che nelle società liberali i demagoghi e i bugiardi, le canaglie e gli individui accecati dal fanatismo vengono fermati in tempo, e alla fine confutati? Quanto è alto il prezzo che è giusto pagare per il grande beneficio della libertà di discussione? Un prezzo molto alto, non c’è dubbio, ma è proprio senza limite? E se non lo è, chi stabilirà quale sacrificio è o non è troppo grande?
Questo dilemma attraversa il nostro tempo, si attualizza nell’enigma così contemporaneo che chiede: libertà di parola o piuttosto impunità dalle conseguenze di ciò che si dice? Libertà di ricerca o “responsabilità sociale”? Siamo oggi alle prese, soprattutto nelle università, con l’elaborazione di codici (linguaggi, comportamenti, nuovi doveri, compiti individuali e collettivi) ispirati certo al grande bene di “non offendere nessuno” ma che spesso scolorano, nella pratica, anche in forme di censura e soprattutto di autocensura che rappresentano una minaccia gravissima alla Libertas, che va dunque oggi ripensata. In una prolusione napoletana di fine Ottocento, dedicata a L’Università e la libertà della scienza, Antonio Labriola ricordava che la libertà scientifica non è un diritto privato come gli altri: per considerarla tale “basterebbe starsene a casa, conversare, far propaganda e scrivere dei libri”, perché «la libertà del dire non può consistere nella facoltà del non dire". Ancora: “Lo Stato, che definisce la scienza, è già una chiesa. Per definire occorre ci sia il domma e il catechismo”.
Allora, profonda è l’amarezza con cui leggiamo la Mozione dell’Unione dei rettori russi del 4 marzo 2022, in cui si afferma come sia dovere fondamentale dell’università «educare la gioventù al patriottismo e al desiderio di aiutare la Patria”, perché “le università sono sempre state il baluardo dello Stato. Il nostro fine prioritario è servire la Russia. Oggi come non mai dobbiamo [...] unirci attivamente intorno al nostro Presidente [...]”.
Ecco icasticamente decretata la morte dell’Università e di ogni sua libertas, perché la ricerca non può essere posta al servizio dello Stato, qualunque esso sia. Una risposta altrettanto icastica l’aveva data una giovanissima studentessa universitaria tedesca nel 1942, a Monaco: “Trovo ingiusto che un tedesco o un francese, o un qualunque altro, difendano il proprio popolo solo perché è il loro”. Era Sophie Scholl, del gruppo della Rosa Bianca, decapitata dai nazisti il 22 febbraio 1943.
Nel 1882 Ernest Renan, filologo e storico delle religioni, coniò la famosa definizione della nazione come "plebiscito di ogni giorno", e non già il deterministico frutto della razza, della lingua, della geografia o dell’economia. No. In nome della sua fragilità, è la libertà, assai più che la nazione, a dover essere la nostra faticosa, consapevole e umile scelta quotidiana che illumina la ricerca della verità.
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