CULTURA

Sorpresa: gli Oscar 2024 ripudiano la retorica

Buone notizie da Hollywood: gli Oscar 2024 hanno premiato ottimi film. Sembra una battuta, ma non lo è: ogni anno, si sa, è alto il rischio che l’Academy valorizzi opere che offrono non i maggiori risultati artistici e tecnici, ma la più centellinata alchimia di criteri di tutela e promozione di valori, minoranze, messaggi politici. Dopo alcune edizioni a dir poco controverse, quest’anno le scelte principali sono state ineccepibili: le sette statuette di Oppenheimer celebrano un’opera importante, di altissimo livello artistico e tecnico (basti pensare allo straordinario montaggio, premiato insieme a fotografia e colonna sonora accanto agli Oscar per miglior film, regia, attore protagonista e non). Ma la vera sorpresa è il tributo (migliore sceneggiatura non originale) a un’opera come American Fiction, una satira a basso budget con un cast interamente afroamericano, che stravolge i criteri imperanti (soprattutto a Hollywood) del “politicamente corretto” raccontando la storia di Monk, uno scrittore nero in crisi, disgustato dai luoghi comuni “black” che obbligano artisti e intellettuali a seguire schemi stereotipati e ridicoli nel rappresentare la propria comunità (i neri del ghetto, la prigione, l’infanzia rubata, le gang, la famiglia asfissiante, la discriminazione); Monk sceglie, per gioco ma anche per provocazione, di scrivere sotto falso nome un romanzo che segue rigorosamente tutti gli stilemi di moda (fin dal titolo “irriverente”, Fuck) fingendo che l’autore sia un detenuto nero dalla vita tempestosa. Ovviamente il libro avrà un enorme successo. American Fiction rappresenta una sterzata decisa, la prima presa d’atto che, nella cultura e nella società americana il “politicamente corretto” si è evoluto da principio di tutela delle minoranze a groviglio di vincoli culturali censori (ed autocensori) che sta imbrigliando in modo soffocante la creatività, e anche la libertà di tutti, in primis chi, come Monk, vuole essere apprezzato per ciò che fa e non per il gruppo che rappresenta.

Retorica ed equilibrismi politici sono assenti anche nel premio al miglior documentario: 20 giorni a Mariupol è la testimonianza di un gruppo di giornalisti ucraini rimasti nella città, unici reporter, durante l’assedio da parte delle truppe russe. Qui non c’è spazio per interpretazioni o funambolismi dialettici: l’orrore e la disperazione si vedono in primo piano, il documento giornalistico è straordinario quale che sia la propria opinione sul conflitto, ed è incredibile che in Italia, dove impazzano i dibattiti televisivi, un’opera del genere abbia avuto una distribuzione quasi inesistente.

Ma in questa edizione degli Awards, purtroppo, il rischio-retorica era evidente anche in una categoria che ci interessava direttamente, l’Oscar al miglior film internazionale. Dei cinque candidati, due erano opere amate dalla critica e dal pubblico, girate da un autore italiano molto stimato e da un mostro sacro del cinema mondiale: Io Capitano di Matteo Garrone e Perfect Days di Wim Wenders. Ad accomunarli, la potente ambizione etica che ne sta alla base: nel caso di Garrone, il tentativo di rovesciare la percezione collettiva del fenomeno immigrazione, raccontando l’approdo in Occidente come punto di arrivo di un percorso del corpo e dell’anima intessuto di dubbi, rinunce, dolore; con Wenders, l’inno a un radicale rinnovamento di valori nel mondo ricco e sviluppato, l’abbandono del culto di competizione, successo, denaro a favore di una società basata su piaceri elementari, minimi eppure gratificanti: un lavoro quale che sia, una tranquilla sequenza di azioni quotidiane compiute in serenità, la gioia di un momento di quiete a contatto con la natura.

Chi potrebbe non concordare, in astratto, con gli assunti di Garrone e Wenders? C’era la possibilità che l’Academy premiasse due opere che trattano temi universali, girate con maestria tecnica, toccanti e fonte di riflessione per chiunque abbia un minimo di sensibilità. Sfortunatamente, il valore di entrambe le opere si ferma qui, alle ottime intenzioni. La realtà raccontata dai due registi è troppo priva di chiaroscuri, e troppo programmatica per essere credibile. Io capitano è, si diceva, il tentativo nobilissimo di ribaltare molti luoghi comuni sull’immigrazione, accomunati da un difetto di prospettiva: chi giudica il fenomeno si limita, in genere, a valutarne l’impatto sulla propria quotidianità, al più sul proprio paese. Garrone segue l’intero percorso di due giovanissimi senegalesi attraverso il Sahel, il Sahara, fino alle coste libiche e alla traversata finale verso l’Italia. La descrizione del viaggio vuol essere, insieme, analisi delle motivazioni, dello sfruttamento economico connesso, del tragico fatalismo dei migranti, unito alla loro determinazione. Ma dubitiamo fortemente che l’impostazione di Io Capitano induca al dubbio, se non al ripensamento, chi vede nell’immigrazione un pericolo o, comunque, una minaccia al proprio benessere. Tutto, nel film, è costruito secondo stereotipi uguali e contrari a quelli che si vuole contestare. Il quartiere senegalese delle prime sequenze è un tripudio di colori, danze, ragazzini dalla faccia pulita che giocano a calcio, mamme trepidanti che cercano invano di trattenere i figli dal grande viaggio, rigando il viso con una lacrima al momento giusto. I due stessi protagonisti sono così carini, ingenui e cortesi da indurci a chiedere cosa c’entrino in mezzo a tanto dolore. Certo, il male esiste, e lo incontrano presto: ma la sua incarnazione non è nel compagno di viaggio che li inganna, o nella lotta disperata per conquistare un posto a scapito degli altri, o nell’amico che li vende al miglior offerente. Il male di Io Capitano è rappresentato solo dai Cattivi con la maiuscola, i trafficanti, le guardie di frontiera corrotte, la mafia libica che li riduce in schiavitù. Tutto tragicamente vero, ma all’interno di una narrazione semplificata, in cui tra i migranti, tutti i migranti, imperano solidarietà, buon cuore, abnegazione: l’inferno, in una parola, non è il mondo che tentano di lasciare, ma quello cui vanno incontro lasciando la vita semplice ma pura del villaggio. Il rischio, di fronte a una lettura simile, è che Io Capitano sortisca l’effetto contrario alle premesse, cioè presenti un’immagine così manichea da rafforzare i pregiudizi, e non eliminarli.

Ancora più sorprendente, però, è che a cadere in una trappola analoga sia un maestro come Wenders. Perfect Days, nato come documentario su un tema che solo in Giappone potrebbe essere oggetto di un film (un progetto di gabinetti pubblici d’autore, nell’ambito della riqualificazione di alcuni quartieri di Tokyo) si è evoluto in lungometraggio di fiction, elevando a protagonista un pulitore di bagni di cui seguiamo la silenziosa quotidianità.  Nell’osservare i gesti semplici di cui si nutre ogni sua giornata (l’accurata igiene personale, lo scrupolo nell’eseguire il suo lavoro a perfezione, la gioia nell’assaporare dei momenti di tranquillità in un parco, l’incontro con un bambino o con una farfalla, il piacere di un buon pasto o di una canzone da una vecchia musicassetta) dovremmo essere accompagnati alla condivisione di un principio, la sacralità di ogni momento che la vita ci riserva, e la felicità che ci offre se ne sappiamo cogliere il valore senza soppesarlo secondo i parametri del Primo Mondo. Leggiamo anche che il protagonista di Perfect Days trae ispirazione da aspetti tipicamente giapponesi nella tradizione filosofica e spirituale, laddove la ripetizione del gesto, la concentrazione nel compierlo, la purificazione del pensiero che lo esegue sono elementi essenziali nella ricerca interiore e nella cultura nipponiche. Tutto giusto, sicuramente. Ma, come nel quartiere di Io Capitano non c’era traccia di cumuli di immondizia o pile di pneumatici in fiamme, così nel lindore mistico dei bagni di Perfect Days lo spettatore non troverà la più minuta macchiolina: anzi, intuiamo che Hirayama, il protagonista, è un pulitore di bagni per scelta (viene da una famiglia benestante), e la sua figura viene quindi ad assumere un ruolo ancor più estraneo al mondo che lo circonda, una specie di santo laico che trova il divino, o qualcosa che gli somiglia, nella simbiosi quotidiana con persone, animali, paesaggi di una città tutta sorrisi, rumori della natura, emozioni sussurrate. Nessun passante sgarbato, nessun sospiro per i cunicoli della vita, preoccupazioni economiche, sentimenti contrastanti. Tutto è quiete, niente è affanno, né sgradevolezza. Magnifico. Forse un po’ troppo.

Alla fine, l’Oscar per la migliore opera internazionale è andato a La zona di interesse, il conturbante film di Jonathan Glazer che racconta la vita della famiglia di Rudolph Höss, il comandante di Auschwitz, che risiede in una casa con un meraviglioso giardino proprio di fronte ai muri del campo di concentramento, godendo di serenità e benessere mentre a pochi metri di distanza si compie il quotidiano massacro. Niente retorica, niente lacrime facili, ma la capacità di trasmettere l’assoluta normalità della perdita di qualunque valore umano, e l’evocazione della più inaudita delle violenze senza mostrare, in scena, una sola goccia di sangue. La differenza, nell’arte vera, è tutta qui.

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