CULTURA

Il teatro vive solo se brucia: la straordinaria storia dei Carrara

Potremmo iniziare con il classico "C'era una volta" perché questa storia ha un sapore antico e custodisce in sé qualcosa di magico. C'è stato un tempo in cui il teatro non restava ad aspettare il suo pubblico, ma si metteva letteralmente in viaggio e andava a cercarlo nei piccoli e nei grandi paesi, facendo uscire le persone dalle case, radunandole nelle piazze. Sembra un tempo lontanissimo ma in realtà la storia che stiamo per raccontare non ha lasciato solo tracce sbiadite lungo il percorso, ha lanciato nel vento semi di memorie ed esperienze che sono giunti fino a noi.

L'epopea dei teatri viaggianti in Italia, dal primo dopoguerra fino all'avvento della televisione, con una incursione nel presente, viene esplorata nel documentario Il teatro vive solo se brucia, ora in fase di montaggio, firmato dal regista Marco Zuin. La voce è quella di Titino Carrara, ultimo erede della famiglia di teatranti più longeva d'Italia, da più di dieci generazioni. Tra le due guerre, il teatro mobile della famiglia Carrara risale la penisola assistendo al cambiamento dell'Italia, passando dalle macerie del secondo conflitto mondiale al benessere economico degli anni Sessanta. Ma la lunga e articolata vicenda di questa famiglia inizia già nei primi anni del Novecento, quando il nonno paterno di Titino, Salvatore Carrara, detto Totò, decide di lasciare la Sicilia, dove la famiglia era rimasta per otto generazioni, e di emigrare. Ha solo vent'anni e durante il viaggio fa tappa in piazze e teatrini fissi, sfruttando talvolta i palchi dei signori locali, e con la famiglia si esibisce per la gente dei tanti luoghi attraversati. Si arriva così, ben presto, alla nona generazione dei Carrara e a questo punto compare Tommaso, detto Masi, che avrà tre figli Titino, Annalisa e Armando. Quando Totò comincia a perdere l'entusiasmo per il teatro, Masi ne fonda un altro, sempre viaggiante, con la moglie Argia e i suoceri Armando e Anna Laurini: costruisce un nuovo padiglione, inchiodando personalmente le assi. Ma l'Italia sta cambiando, e così gli interessi della gente. Arriva la televisione e tutto il resto inizia a sembrare meno attraente. Il teatro da cinquecento posti fatto di assi di legno, chiodi raddrizzati e riutilizzati e fondali di carta dipinti viene schiodato, tagliato, fatto a pezzi da ciascuno dei membri della compagnia e infine bruciato. "Il teatro non si vende - dice Masi - non si lascia marcire in un magazzino. Non possiamo buttarlo via, questo mai. Meglio bruciarlo".

Sembra tutto finito, ma Titino, figlio di Masi e Argia, non dimentica, non molla, ed è oggi l’ultimo della famiglia a fare ancora l’attore girovago, interprete della grande tradizione della Commedia dell'Arte: indossa la maschera di Arlecchino e dello Zanni nelle tournée in tutto il mondo, da Istanbul a Londra, da Tokyo a Parigi, da Buenos Aires a Montreal. La sua storia, quella di Annalisa, nota curatrice e organizzatrice teatrale, e di Armando, attore, e della madre Argia, classe 1930, la prima donna a vestire i panni di Pantalone, viene raccontata in questo documentario. In occasione della Giornata mondiale del teatro, che si celebra oggi 27 marzo, a svelare i ricordi della famiglia Carrara e ad anticipare qualche dettaglio del progetto per il cinema sono Annalisa Carrara e Marco Zuin. 

Montaggio: Elisa Speronello

I ricordi seguono le carovane, i teatri mobili, i repertori recitati a volte all’impronta e misurati sul gusto del pubblico che accorre nella piazza del paese per assistere allo spettacolo: proviamo a immaginare, per un attimo possiamo tornare lì. 

"Qualche anno fa ho conosciuto Titino Carrara, attore che vanta un primato in Italia, perché la sua famiglia da dieci generazione si tramanda il sapere del teatro - racconta Marco Zuin -. C'è stato un tempo in cui il teatro si muoveva, in cui le assi del palcoscenico venivano inchiodate e poi schiodate per ripartire e raggiungere altri luoghi. Titino e la sua famiglia avevano un teatro mobile. Titino nasce agli inizi degli anni Cinquanta proprio sulle assi del loro carro di Tespi e, con i fratelli Annalisa e Armando, impara l'alfabeto teatrale osservando i genitori e recitando sin da piccolo". Ed è proprio Titino a portare la tradizione teatrale di famiglia fino in Veneto, precisamente a Vicenza, dove fonda La Piccionaia. "In origine questo tipo di teatro popolare si rivolgeva anche a un pubblico analfabeta che, proprio attraverso le storie raccontate, ogni giorno diverse, imparava l'italiano", continua il regista.

"Il teatro vive solo se brucia è dunque un racconto di formazione, umano e professionale, e al contempo di trasformazione, sociale e culturale di un Paese, l'Italia. Il fuoco cui allude il titolo, e che 'consuma', si riferisce alla passione di raccontare storie: è un modo per dare un senso al proprio vissuto, ordinare il caos che ci circonda e, perché no, innescare un circolo virtuoso che, dalla condivisione, ci riporti a un senso di comunità". Tra passato e presente, "i Carrara sono figli del mondo e cambiano con lui".

La parola passa ad Annalisa Carrara, che ci accompagna in un viaggio di esplorazione della memoria. "Sono emozionata, devo fare sintesi e raccontare chi sono e perché sono quella che sono. Io credo di aver vissuto con una tribù che il teatro e l'anima le hanno messe insieme, ne hanno fatto uno sposalizio. Questa gente, e la mia famiglia prima di tutto, hanno fatto del teatro la vita e l'anima della vita. La prima immagine che mi passa per la testa, pensando alla mia esistenza, sono i corsi d'acqua. Sapete perché? Perché quando la carovana dove abbiamo vissuto, la nostra casa con le ruote, riusciva a fermarsi vicino a un fiume, a una roggia, era una festa incredibile. Questo per me è un simbolo fortissimo di libertà. Dal teatro e dalla mia famiglia io ho appreso un alfabeto di libertà".

"Vedevo mio padre e mia madre trasformarsi in continuazione, da popolano a duchessa, da personaggio di Shakespeare a Locandiera - continua Annalisa Carrara - e così ho maturato un senso del linguaggio, della vita, dei sentimenti con una ricchezza diversa da chi non può sperimentare tutto questo. In dieci generazioni a noi bambini è stato trasfuso un alfabeto del fare teatro, dell'essere attore e attrice, ma senza fare scuola, mettendoci invece direttamente sul palcoscenico. Dovevamo averlo dentro. Eugenio Barba parla di una croce al centro del corpo, il punto dell'energia. Ecco, è quello: dovevamo cercare il fuoco, la capacità interpretativa, la presenza, per portare le parole fino allo spettatore. Questo te lo insegna una vita intera passata sul palcoscenico. Non è solo una regola".

"Da bambina, come i miei fratelli, io dovevo recitare. Ho vissuto gioie immense e immensi dolori, perché per un bambino è difficilissimo scindere la realtà dalla rappresentazione. E, guardate, un tempo, il pubblico era uguale a noi. Che meravigliosa ingenuità! Un esempio: l'attore che interpretava Giuda nella sacre rappresentazioni andava in panificio il giorno dopo, ma non gli davano il pane. Quel poveretto restava Giuda. Attore e personaggio in un pubblico di magnifica ingenuità erano la stessa persona. Badate, non vi era nulla in quei luoghi oltre al teatro arrivato per fermarsi per qualche tempo. E anche per noi bambini attori era così: io e mio fratello Armando condividiamo lo stesso ricordo in scena ne I due sergenti. Uno di questi due sergenti viene ingiustamente accusato. Sta rischiando la vita, perché condannato, e deve quindi abbandonare la famiglia, chiama allora a sé i figli e li stringe per l'ultimo addio. Ricordo la doppia fila di bottoni tondi di metallo della divisa da sergente indossata da mio padre, che stava interpretando quel ruolo. Prima di iniziare si faceva entrare il fumo di sigaretta negli occhi per lacrimare, poi entrava in scena, si inginocchiava e ci diceva: Addio per sempre, addio. Per me era sconvolgente. Mio padre mi stava dicendo addio, non riuscivo a separare la vita dal teatro. Quei bottoni mi entravano nella pelle".

Poi, ovviamente, crescendo, in età adulta, si elabora una propria via intellettuale: "Io sono stata una enorme appassionata e promotrice del teatro di ricerca degli anni Settanta e Ottanta e mi sono molto impegnata per farlo conoscere al pubblico, approfondendo anche un linguaggio teatrale diverso da quello della mia tradizione familiare. Cosa mi resta di tutte queste esperienze? Quello che sono e una grande sensibilità nei confronti degli artisti e del pubblico. A teatro, quando le luci si abbassano si crea un silenzio che è cibo per l'attore: bene, oggi, se uno spettacolo non sta arrivando allo spettatore, io lo capisco già da quel silenzio e immediatamente mi viene mal di stomaco, perché nel teatro mobile se il pubblico non veniva ad assistere, se era scontento, si creava un problema, ci si preparava a vivere per un po' in ristrettezze, quindi l'ascolto dell'altro era questione di vita".


Il teatro vive solo se brucia 

(Italia, 52 minuti) 

Il documentario diretto da Marco Zuin, prodotto da Ginko Film e cofinanziato dalla Regione del Veneto, racconta l'epopea dei teatri viaggianti attraverso la voce di Titino Carrara, ultimo erede della famiglia di teatranti più longeva del teatro italiano, più di dieci generazioni: i Carrara. 

La riprese del documentario, prodotto da Ginko Film e cofinanziato dalla Regione del Veneto, sono state realizzate al Museo internazionale della maschera Amleto e Donato Sartori di Abano Terme (Padova), dove sono state realizzate le più importanti maschere per le rappresentazioni curate da Strehler, De Bosio, Dario Fo, Ferruccio Soleri e, appunto, per Titino Carrara, e nelle sale della Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza dove è conservato l’archivio che documenta l'attività della compagnia dal 1975, anno in cui è stata fondata La Piccionaia.

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