CULTURA

Molière, i 400 anni del re Sole della commedia

Non ha portato in scena re e principi ma le personificazioni dei nostri vizi: per questo, a 400 anni dalla nascita, è ancora tanto amato (e continua a far sorridere). Jean-Baptiste Poquelin, noto come Molière, nasce a Parigi il 15 gennaio 1622, ma la sua opera è miracolosamente immune dai segni del tempo: la sua grandezza sta anzi proprio nell’aver anticipato la modernità di cui facciamo tutti parte. “Parla agli uomini e alle donne di ogni epoca, suscitando un sorriso riflessivo e amaro piuttosto che risa sfrenate – spiega Anna Bettoni, docente di letteratura francese presso l’università di Padova –. Una caratteristica di tutti geni, che però in Molière è particolarmente evidente perché, attraverso il teatro, era abituato a parlare anche agli analfabeti”.

Elevato ma popolare, caro sia al re di Francia che alla gente comune, Molière va oltre gli schemi in cui di solito ingabbiamo i classici: “Non dimenticò mai di essere innanzitutto un capocomico: se le sue opere non piacevano la compagnia non mangiava – continua Bettoni –. Per questo la sua prima preoccupazione fu sempre la messa in scena: solo in un secondo momento il testo, revisionato a seconda delle reazioni del pubblico, veniva dato all'editore”. Eppure pare che all’inizio anche il giovane Poquelin volesse essere apprezzato soprattutto come autore e interprete tragico, sull’esempio dei contemporanei Racine e Corneille. Figlio di un ricco artigiano, riceve un’eccellente educazione (forse dai gesuiti, e gli si attribuisce addirittura una laurea in legge): poco più che ventenne lascia però al fratello minore l’impresa di famiglia e un destino già tracciato per entrare in una compagnia teatrale.

Non dimenticò mai di essere innanzitutto un capocomico: se le sue opere non piacevano la compagnia non mangiava

All’inizio non va affatto bene e finisce addirittura in prigione per debiti; a salvarlo è proprio l’intervento del padre, che immaginiamo assai perplesso sulle scelte del giovane. Che una volta libero decide di lasciare Parigi con la sua compagnia; intanto ha iniziato a firmarsi Molliere o De Moliere: forse in onore dell’amico Louis de Mollier, compositore e poeta, oppure per darsi un tono con un titolo dal suono nobiliare, come altri attori in quel periodo. Sta di fatto che è proprio negli oltre 12 anni passati nella Francia profonda, tra castelli e fiere di paese, che poco a poco nasce e si afferma la stella del giovane autore. Il quale, ispirandosi soprattutto alla Commedia dell’arte italiana, presto si conquista la simpatia di potenti protettori oltre che del pubblico. Finché nel 1658 è richiamato a Parigi ad esibirsi davanti a un giovane Luigi XIV, che da allora non si perde una sua commedia.

L’appoggio del sovrano è il punto di svolta: il futuro re Sole pranza con Molière mentre i nobili della corte assistono in piedi, un giorno arriva persino a danzare assieme agli altri ballerini in una messa in scena davanti alla corte. Soprattutto però lo protegge dalla Chiesa – ancora ostile soprattutto alle opere comiche – e dai veleni dei cortigiani, non sempre contenti di essere presi in giro davanti al sovrano: “Dovere della commedia è di correggere gli uomini divertendoli”, si difende il drammaturgo. Per Bettoni “Molière accetta il compromesso con il potere ma non per questo si tappa la bocca. Porta in scena personaggi problematici come ipocondriaci, avari, misantropi e bigotti, ma in modo talmente sottile da non incorrere nella censura. Tranne che nel Tartufo, dove però prende in giro i Devoti, un vero e proprio partito politico. Dopo qualche anno però, dopo aver ritoccato il testo, lo riporta nei teatri”.

Se Shakespeare indica le altezze ma anche gli abissi a cui può arrivare l’animo umano, Molière ci fa sorridere della nostra mediocrità. “Quando ad esempio assistiamo al Malato immaginario o al Misantropo vediamo dei personaggi sconfitti – commenta Bettoni –. Qui sta la grandezza di Molière, capace di suscitare compassione anche nelle commedie: a volte verrebbe voglia di salire sul palco e aiutare il protagonista”.

Oggi Molière è ancora popolare nelle rappresentazioni, ma come reagisce il pubblico e cosa comporta per un giovane attore interpretarlo? Lo chiediamo a Giorgio Sangati, docente di interpretazione presso l’accademia ‘Carlo Goldoni’ del Teatro stabile del Veneto. “Si tratta anzitutto di un autore molto formativo: l’ho affrontato ai tempi dell’accademia e oggi lo propongo ai miei studenti come materia di insegnamento – esordisce l’attore e regista –. È una miniera di strumenti per i giovani attori e un tutore perfetto per capire come funziona il teatro: adotta infatti una scrittura classica, studiata e costruita, che però sulla scena può diventare estremamente vitale”.

Molte delle opere più famose del drammaturgo francese sono in versi, tra cui il caratteristico dodecasillabo alessandrino: a prima vista un ostacolo per chi oggi identifica la buona recitazione con la naturalezza, ma che al momento sembra non dissuadere il pubblico e nemmeno le nuove leve del teatro. In parte perché, spiegano attori e di registi, con la giusta bravura e preparazione è possibile parlare Molière invece di recitarlo; in alcuni casi inoltre la metrica si rivela un’arma in più: proprio osservando forme ed etichetta l’autore riesce infatti ad essere particolarmente tagliente contro cortigiani e borghesi arricchiti.

Per i giovani Molière è un tutore perfetto per capire come funziona il teatro

Del resto, come dimostrano il Cyrano di Rostand ed Eminem in 8 mile, poche cose danno più soddisfazione di canzonare in rima i propri avversari. E il Cyrano storico era contemporaneo di Molière e probabilmente lo conosceva. “I versi sono vincoli apparenti, che una volta digeriti permettono all’attore di muoversi più liberamente – commenta Sangati, la cui formazione comprende il diploma presso la Scuola di teatro del Piccolo di Milano e la laurea in Scienze della comunicazione all’Università di Padova –. Quello che sembra un ostacolo diventa così un aiuto, perché da un punto di vista teatrale il verso è già un indicatore ritmico: rispetto alla prosa permette all’attore di scivolare più fluidamente da uno stato e da una situazione emotiva all’altra”. Con la metrica è insomma l’autore a fornire una guida su cadenza e pause, permettendo all’attore di concentrarsi su altri aspetti dell’interpretazione.

Un gioco che ancora oggi funziona, come dimostrano le numerose messe in scena: “Si osa anche di più sia nella regia che nell’interpretazione, emancipandosi dall’obbligo della commedia in costume e da una certa ambientazione salottiera. Non è l'ambientazione a far vivere il teatro di Molière: quello che una volta che si restituiva attraverso una parrucca oggi si può ottenere attraverso una recitazione più fisica e performativa”. E spettatori e attori apprezzano: in questo particolare momento mettere in scena l’umanità sotto il suo lato buffo e ridicol  è particolarmente efficace: il pubblico si riconosce nei personaggi e sta al gioco. E soprattutto pensa e si diverte molto. Per questo sotto molti aspetti Molière oggi ‘funziona’ più di Shakespeare, spesso più criptico di quanto si pensi”.

Come il bardo inglese Molière oggi è la personificazione del teatro ‘alto’, nonostante una vita e una carriera passata a combattere contro moralismi e snobismo. In vita non fu ammesso all’Académie française, e subito dopo la morte la chiacchierata moglie Armande faticò non poco a farlo seppellire: non aveva infatti firmato l’atto di rinuncia alla professione di commediante, ritenuto necessario dalla Chiesa per la sepoltura in terra consacrata. La quale avvenne di notte e alla presenza di poche persone, solo grazie all’ultimo intervento di re Luigi a favore di colui che tante volte lo aveva fatto ridere e preoccupare. Pochi giorni prima, il 17 febbraio 1673, il grande attore si era sentito male in scena davanti a un pubblico incredulo. Stava recitando, assieme alla sua compagnia, Il Malato immaginario.

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