SOCIETÀ

La Francia e il Bataclan, dieci anni dopo

La sera del 13 novembre una serie coordinata di attacchi sconvolse la capitale francese: dalle esplosioni allo Stade de France, dove si giocava la partita tra Francia e Germania, alle sparatorie nei caffè e nei ristoranti dell’XI arrondissement, fino al massacro del Bataclan. Ci sono tragedie che, pur in un mondo violento, assumono un significato ulteriore. Gli attentati del 2015 – contro la redazione di Charlie Hebdo, il supermercato Hyper Cacher e, pochi mesi dopo, i luoghi della notte parigina – non furono soltanto atti di terrorismo diretti a seminare paura e piegare un popolo attraverso il terrore. 

Si trattò di un vero e proprio attacco a un intero modo di vivere: all’ironia, alla cultura, a quella joie de vivre che rende la Francia un simbolo nel mondo, alla diversità che anima grandi metropoli come Parigi. Colpirono gli intellettuali, i giovani che ballavano, la comunità ebraica. In particolare l’attacco al Bataclan, con le sue 90 vittime, fu per molti versi ciò che l’11 settembre rappresentò per gli Stati Uniti – e, in prospettiva, ciò che il 7 ottobre sarebbe stato per Israele: un trauma fondativo, una ferita che ridefinisce la percezione stessa della sicurezza e della vulnerabilità.

A dieci anni di distanza da quella tragedia la Francia appare una società più frammentata, attraversata da divisioni sociali e ideologiche profonde, con una Quinta Repubblica in evidente crisi di legittimità. Eppure, nonostante tutto, il Paese prova ancora a ritrovarsi attorno a quella memoria condivisa. Ne parliamo con Bruno Cautrès, politologo, docente e ricercatore presso il Centre de recherches politiques de Sciences Po (CEVIPOF) di Parigi, tra i maggiori esperti francesi di opinione pubblica e comportamento elettorale. Con lui riflettiamo su come la Francia è cambiata dopo gli attentati, sulla crescita delle destre, sull’instabilità politica che attraversa la presidenza Macron e sul difficile equilibrio tra sicurezza e democrazia in un’Europa segnata da nuove paure.

Professor Cautrès, partiamo dai fatti del 2015. Gli attentati di Charlie Hebdo e del Bataclan sono stati una sorpresa? In cosa si sono distinti dagli attacchi precedenti?

A fare la differenza sono innanzitutto l’ampiezza e la brutalità. In un arco di tempo molto breve, circa un anno e mezzo, la Francia ha conosciuto il massacro della redazione di Charlie Hebdo, la strage del Bataclan e quella di Nizza del 14 luglio 2016 (86 vittime e più di 450 feriti, ndr). 

Per la prima volta inoltre le immagini del terrorismo sono entrate nelle case dei francesi: i fratelli Kouachi con il kalashnikov per le strade di Parigi, l’assalto all’Hyper Cacher, la caccia agli attentatori trasmessa in diretta televisiva. 

Ricordiamo infine anche il celebre discorso di Manuel Valls all’Assemblea nazionale e la grande manifestazione con i capi di Stato di tutto il mondo: momenti che si sono fissati nella memoria francese. Tutto questo ha lasciato un segno profondo nella coscienza collettiva: un vero e proprio trauma nazionale.


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Dieci anni dopo che cosa resta di tutto questo nella memoria collettiva e nella vita politica francese?

Moltissimo. Questi attentati sono tra gli eventi più determinanti degli ultimi vent’anni per capire il sentimento, oggi molto diffuso, che “la Francia va male”, che il Paese è vulnerabile e minacciato. 

Come l’11 settembre negli Stati Uniti, il 2015 ha segnato un punto di svolta, alimentando una forte domanda di autorità e di sicurezza. Ricordiamo che nelle successive elezioni presidenziali del 2017 Marine Le Pen superò il 20% al primo turno, andando al ballottaggio.

Non so se ci sia una relazione diretta fra gli attentati e la crescita dell’estrema destra, ma è sicuramente uno degli elementi che hanno contribuito a orientare una parte dell’opinione pubblica verso posizioni più securitarie e diffidenti. Nonostante negli anni successivi decine di altri attentati siano stati sventati, è comunque rimasta una percezione diffusa di fragilità rispetto alle minacce esterne.

Gli attentati hanno modificato il rapporto con le comunità musulmane?

La situazione è complessa, ma non si può dire che ci sia stato un aumento dei pregiudizi. Le indagini d’opinione condotte dopo il 2015 mostrano che la maggioranza dei cittadini distingue chiaramente tra islamismo radicale e musulmani.

Certo, si è rafforzata la domanda di controllo sull’immigrazione, in particolare quella irregolare, ma non c’è stata una crescita significativa degli stereotipi negativi. Molti francesi continuano anzi a essere dell’idea che le diverse comunità, se rispettano la legge, possano convivere senza problemi.

È vero d’altra parte che da allora ci sono stati diversi “attacchi al coltello”, spesso collegati all’islamismo radicale, e questo mantiene viva una sensazione di minaccia diffusa.

Il 2015 ha segnato un punto di svolta: ha alimentato un sentimento diffuso di vulnerabilità e una forte domanda di autorità e sicurezza

Dal punto di vista politico, la Francia appare oggi più instabile. È solo un’impressione o siamo davanti a un vero cambiamento di sistema?

È un cambiamento reale. Esiste ormai una forte tensione tra l’architettura istituzionale della Quinta Repubblica, concepita per un sistema bipolare, e l’evoluzione di un panorama politico divenuto tripolare: una sinistra, una destra e il Rassemblement National.

Oggi nessuno di questi tre blocchi ha la forza di ottenere da solo la maggioranza all’Assemblea Nazionale, e ciò genera instabilità. Non sappiamo se nel 2027 l’ordine si ristabilirà o se continueremo in questa situazione: anche se Marine Le Pen o Jordan Bardella vincessero le presidenziali non è affatto certo che avrebbero una maggioranza parlamentare.

Anche questa un’eredità degli attacchi del 2015-16?

Credo sia il frutto di una trasformazione più profonda. Come molte democrazie europee, la Francia è diventata negli ultimi decenni una società sempre più aperta e interdipendente: questo però ha reso paradossalmente più sensibili questioni come quelle dell’identità nazionale.

Si tratta di processi che non nascono nel 2015 ma risalgono almeno agli anni Novanta: basti ricordare il referendum su Maastricht, approvato per un soffio, o il rifiuto del Trattato costituzionale europeo.

Il Rassemblement National ha vinto le ultime tre elezioni europee – 2014, 2019, 2024 – e questo riflette un rapporto complicato tra la Francia e il mondo di oggi. Più il mondo diventa aperto, più il tema delle frontiere torna centrale: è il grande paradosso della globalizzazione.

La stessa Unione Europea, nella cui costruzione la Francia ha sempre giocato un ruolo da protagonista, appare oggi sempre meno popolare. Un altro paradosso?

È vero. Basti pensare che oggi la Francia è anche uno dei Paesi più scettici verso un altro allargamento dell’UE, eppure abbiamo eletto due volte Emmanuel Macron contro Marine Le Pen! Vorrei segnalare ai lettori italiani un elemento decisivo, ma di cui non si parla: il prossimo allargamento dell’UE, previsto per il 2030, non è affatto scontato. 

Se infatti un nuovo trattato di adesione dovesse essere ratificato tramite referendum e si votasse oggi, credo che vincerebbe il “no”. Se invece la ratifica passasse per il Parlamento, non è affatto detto che il trattato venga approvato con un Rassemblement National e una France Insoumise così forti. Nessuno a Bruxelles ne parla: si dà per scontato che basti la volontà del presidente per far procedere l’allargamento, ma non è così. E se la Francia torna a dire no, tutto si bloccherà ancora.

Torniamo alla memoria del Bataclan. A dieci anni di distanza, quel ricordo unisce o divide i francesi?

Direi che li unisce. Gli attentati del 2015 hanno rappresentato un trauma condiviso, un momento di lutto collettivo. Al momento mi pare che nessuna forza politica cerchi di sfruttare direttamente quella ferita per dividere il Paese. Forse l’estrema destra tenterà di sottolineare ancora la necessità di controllare meglio le frontiere: ricordiamo però che gli attentatori, Saïd e Chérif Kouachi e Amedy Coulibaly, erano francesi, non venivano dall’esterno.

Erano giovani cresciuti in Francia, seguiti da assistenti sociali, integrati almeno in apparenza, anche se con fragilità personali e familiari. La violenza non è venuta da fuori, ma dall’interno stesso della società.

La violenza non è venuta da fuori, ma dall’interno della società francese: i fratelli Kouachi e Coulibaly erano giovani cresciuti qui

Qual è oggi, secondo lei, la migliore maniera di ricordare?

Casa mia è a due passi dal Bataclan; non so ancora cosa farò, ma penso che la cosa più importante per rendere omaggio alle vittime sia mostrare che, da allora, la Francia ha imparato la lezione e ha rafforzato la propria sicurezza.

Negli ultimi anni sono state adottate molte misure di controllo: alcune, nate come “eccezionali”, sono ormai entrate nel diritto comune. Certo, ci sono stati dibattiti – anche in Italia, credo, avete discusso di questioni simili negli anni ‘70 – ma oggi esiste un’ampia accettazione dell’idea che per proteggersi servano strumenti più forti.

Da dieci anni la Francia non ha più conosciuto attacchi di quella portata: è questo, forse, il modo più concreto di ricordare.

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