Il terremoto che ha colpito Turchia e Siria è uno dei più forti dell'ultimo secolo, e con oltre 21.000 vittime ha superato persino la tragedia di Fukushima. I fattori che hanno portato a questo risultato sono molti, e non possono essere individuati con precisione mentre si cercano ancora i sopravvissuti tra le macerie. Tra la magnitudo di 7.8 della scala Richter e la forte concentrazione di abitanti nella zona, passando per il ritardo dei soccorsi, le contingenze sono tra le peggiori che si potessero trovare.
La Turchia è sempre stata una zona molto sismica: tra i terremoti più recenti ricordiamo quello di gennaio 2020, che ha provocato scosse anche in Siria, Georgia e Armenia, i due terremoti del 2010 e 2011 nella zona est e quello dell'agosto del 1999, con epicentro a Izmit, una città dell'ovest. Andando anche molto più indietro nella storia, scopriamo che si concentrano lungo due faglie, quella est anatolica, che va da nord-est a sud-ovest arrivando oltre il golfo di Alessandretta, e quella nord anatolica, che parte dal mare di Marmara e procede verso est. In ogni caso erano più di mille anni che non si verificavano dei terremoti così dannosi. "La faglia est anatolica - spiega Massimiliano Stucchi, direttore emerito della sezione INGV di Milano che da anni sta studiando i terremoti di questa zona - a un certo punto si piega e diventa parallela e molto vicina a un'altra faglia importante che si chiama faglia del Mar Morto, che sale attraverso Israele e arriva al confine con la Turchia. Queste due faglie storicamente hanno sempre dato terremoti molto importanti. La faglia del Mar Morto ha creato problemi in epoca medievale, e lo sappiamo dalle fonti relative alle Crociate, mentre poi è stata meno distruttiva. La faglia est anatolica invece continua a causare terremoti forti".
Ricostruire i terremoti nella storia non è semplicissimo: se pensiamo che la scala Richter è stata introdotta solo nel 1935 possiamo farci un'idea solo vaga della situazione. Uno dei problemi a cui vanno incontro i sismologi che cercano di ricostruire questi fenomeni in chiave storica sono le fonti non sempre precise. I motivi sono molteplici: può esserci la tendenza a esagerare, un po' come succede su certa stampa e nei racconti delle persone interessate, con la differenza che oggi abbiamo l'opportunità di avere delle misure oggettive. E non ha senso nemmeno ragionare troppo sui danni, che forniscono solo pochi indizi sull'intensità di un terremoto. Spesso si sente dire che gli edifici più antichi resistono meglio di quelli moderni, ma come ci spiega il professor Carlo Pellegrino, prorettore all'edilizia del nostro Ateneo, questo non è sempre vero, e non si può generalizzare. Ci sono molte variabili che influenzano la vulnerabilità sismica degli edifici: "In generale - spiega Pellegrino - possiamo dire che gli edifici bassi, a pianta larga e con poche aperture resistono di più, ma se poi ci spostiamo in Giappone troviamo dei grattacieli che resistono tranquillamente, perché sono costruiti con materiali e criteri che puntano proprio a questo. Non si può generalizzare, soprattutto se parliamo di materiali: si dice per esempio che gli edifici in muratura siano meno resistenti, ma su questo è opportuno specificare, anche perché esistono tipi diversi di muratura, che può essere di mattoni, di pietra irregolare o di altro tipo ancora ".
“ Quando parliamo di vulnerabilità sismica non possiamo generalizzare
Pellegrino ci spiega poi che il rischio sismico dipende dalla vulnerabilità degli edifici, dall'intensità del terremoto stesso e dalla densità abitativa nella zona colpita. Uno dei problemi è che il rischio sismico non rimane stabile nel tempo. Una zona come Padova fino a pochi anni fa non era considerata a rischio, e quindi gli edifici, che ora sono comunque piuttosto nuovi, non venivano costruiti con criteri antisismici. Ora che la situazione è cambiata vengono utilizzate regole diverse, che comunque non garantiscono che non ci siano danni: è essenziale che l'edificio non collassi istantaneamente, in modo che gli occupanti abbiano il tempo per uscire e non rimanere schiacciati sotto le macerie.
Un altro problema relativo alle fonti storiche è l'imprecisione: senza arrivare ai suggestivi equivoci per cui Tripoli viene scambiata con Tivoli, nella zona di cui parliamo ci sono ancora più difficoltà: "Ci sono dei limiti di cronologia - spiega Stucchi - perché non tutti i calendari sono uguali, e anche i sistemi orari sono diversi. Ma soprattutto bisogna riuscire a individuare le località di cui si parla, perché non sempre hanno il nome attuale. Per esempio oggi parliamo di Gaziantep, che è un nome turco, ma storicamente era chiamata Aintab perché era una località armena: aggiungere gazi, che in turco significa guerriero, era un modo per sottolineare la nuova dominazione. Un altro esempio è Kahramanmaraş che fino al 1973 era indicata come Maraş. Città grandi come questa non sono difficili da individuare, ma non sempre siamo così fortunati, perché esistono molti paesi più piccoli di cui il nome antico, di solito armeno, è stato cancellato del tutto. Se in Italia possiamo lavorare con gli archivi, in Turchia non troviamo archivi bizantini, gli archivi ottomani non si occupano di questa zona e contengono testi scritti in ottomano, che nemmeno i turchi sanno leggere, quindi le fonti sono quello che sono".
Una volta superati questi problemi, però, possiamo avere una ricostruzione piuttosto accurata, che ci permette di dire che i terremoti simili a quello odierno si sono verificati nel 1114 (due a breve distanza) e nel 1822, il primo nella zona di Kahramanmaraş, e il secondo, che è chiamato impropriamente terremoto di Aleppo, un po' più a sud.
Grazie ad alcuni calcoli si può stimare anche l'intensità di questi terremoti antichi, ovviamente con una certa approssimazione, minore però di quella che si potrebbe pensare: nella maggior parte dei casi parliamo di uno scarto di 0.5 gradi della scala Richter: la sismologia storica negli ultimi anni ha fatto notevoli progressi.