SCIENZA E RICERCA

Per trovare tracce di vita su Marte servono strumenti più sensibili

La ricerca di segni di vita sulla superficie di Marte è uno dei più grandi progetti di astrobiologia mai messi in atto. Sono diverse, oggi, le missioni in corso per cercare sul pianeta rosso campioni di materia organica, che sono i più probabili indicatori della presenza di forme di vita, seppur in un lontano passato.

Le sofisticate strumentazioni scientifiche montate sui rover sono programmate per individuare gli ambienti potenzialmente abitabili, nei quali potrebbero esistere le condizioni necessarie per la vita. Tra queste vi è certamente la presenza di acqua, e da quando è stato scoperto, sulla superficie di Marte, il bacino di un antico lago ormai prosciugato, molti degli sforzi di individuazione di tracce di antiche forme di vita si sono concentrati proprio in quell’area. Finora, questi potentissimi strumenti hanno rintracciato alcuni materiali organici che sono considerati una possibile base per forme di vita simili a quelle terrestri, ma non esistono evidenze ulteriori che possano far credere che forme di vita basate sul carbonio possano aver abitato il pianeta.

In uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature Communications, un nutrito gruppo di scienziati appartenenti a diverse istituzioni internazionali, tra cui la NASA e l’INAF, propone una spiegazione per tale carenza di ritrovamenti. Secondo i ricercatori, il fatto che i rover che scansionano il suolo marziano non abbiano finora trovato tracce di materia organica potrebbe essere dovuto non tanto all’effettiva assenza di questi composti nel terreno del pianeta, quanto piuttosto alla non sufficiente sensibilità degli strumenti oggi esistenti.

Per vagliare questa ipotesi, i ricercatori hanno effettuato degli esperimenti in una zona del Cile settentrionale nota come Red Stone (“Pietra rossa”), all’interno del deserto di Atacama, il più arido e antico deserto del mondo. Red Stone è una zona sedimentaria di origine alluvionale, nelle cui rocce sono conservate antiche tracce di vita. L’area è ben nota agli studiosi di astrobiologia, dal momento che rappresenta un ‘duplicato’ abbastanza fedele, dal punto di vista ambientale e geologico, delle condizioni del cratere Jezero, l’antico bacino lacustre di Marte che il rover Perseverance della NASA sta esplorando nel corso della sua missione. In questo deserto, i resti organici sono rarissimi: i campioni raccolti nell’area contengono circa un microgrammo di DNA per ogni grammo di terra, e da precedenti analisi genetiche è emerso che molte delle specie – sia viventi che estinte – a cui questi resti appartengono non sono ancora state descritte dagli scienziati. Per circa il 41% dei resti di DNA individuati si è potuto risalire soltanto al dominio o all’ordine tassonomico, mentre per il 9% non si è riusciti a definire una classificazione. Per questo, le microscopiche forme di vita che hanno popolato, nel corso del tempo, questo angolo del deserto di Atacama sono state etichettate dai ricercatori come dark microbiome, “microbioma oscuro”.

In questo sito così promettente, dunque, i ricercatori hanno messo alla prova sia strumenti analoghi a quelli già all’opera su Marte, sia strumenti ancora più potenti, che verranno impiegati in prossime missioni spaziali. L’aspettativa era che questi apparecchi riuscissero ad individuare con relativa facilità le tracce di vita presenti nell’area di Red Stone. Invece, gli strumenti si sono rivelati incapaci di individuare gran parte dei resti di microrganismi e delle tracce organiche presenti. Come spiega Armando Azua-Bustos, primo autore dello studio, in una dichiarazione riportata nel comunicato stampa della Cornell University, «la probabilità di ottenere falsi negativi nella ricerca di tracce di vita su Marte evidenzia la necessità di elaborare strumenti più potenti».

In attesa di sviluppare nuovi macchinari che possano colmare questa carenza tecnica, l’unica speranza di identificare potenziali tracce biologiche sul pianeta rosso è riposta nelle analisi in laboratorio dei campioni raccolti sul campo dai rover. Ma anche questa è una strada in salita: come aveva raccontato lo scorso novembre a Il Bo Live Teresa Fornaro, una delle ricercatrici italiane coinvolte nel progetto, i campioni finora raccolti dai rover Perseverance e Curiosity dovranno essere conservati in speciali provette per almeno altri dieci anni. Infatti, la missione esplorativa di Perseverance dovrebbe concludersi nel 2033, quando un’altra missione di “sample return” andrà a recuperare quel materiale scientifico per riportarlo sulla Terra.

Come riporta ancora il comunicato stampa della Cornell University, l’astrobiologo spagnolo Alberto Fairén, senior scientist del gruppo di ricerca, ha spiegato che ci sono due strade percorribili per sperare di identificare tracce biologiche nei campioni finora raccolti da Perseverance. Da una parte vi è la possibilità di spedire su Marte nuovi strumenti, più potenti e precisi di quelli attualmente disponibili, per raccogliere un più ampio numero di campioni; dall’altra parte, invece, si può puntare sul recupero del numero relativamente limitato di campioni che verranno raccolti nel corso della missione Mars2020, per poterli analizzare con la più ampia varietà di strumentazioni disponibili nei laboratori terrestri. In entrambi i casi, afferma Fairén, si tratta di operazioni molto complesse.

Ad oggi, gli scienziati lavorano su entrambi i fronti. In attesa di nuovi dati dal pianeta rosso, quel che appare con sempre maggiore chiarezza è che la geologia e – qualora vi fosse vita – la biologia di Marte sembrerebbero tutt’altro che simili a quelle terrestri: le nostre conoscenze a riguardo sono ancora esigue, e saranno necessari molti altri anni di esplorazioni per sperare di comprenderne i meccanismi.

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