Dopo mesi di disinformazione e dichiarazioni incendiarie e divisive, per non dire eversive, avvenute anche durante l’assalto a Capitol Hill, Facebook e Twitter hanno deciso di applicare restrizioni ai profili social di Donald Trump, mentre era ancora presidente di quella che è considerata la più grande democrazia del mondo occidentale. Una decisione che ha ricevuto un plauso enorme, proprio per quel tipo di comunicazione, aggressiva, che è costata a Trump l’ostilità di gran parte dell’opinione pubblica internazionale – o almeno quella che sta sui social – ma che apre una riflessione sul ruolo delle piattaforme nelle democrazie occidentali e sulle contraddizioni di quella che, efficacemente, José Van Dijck ha definito platform society.
Da tempo, il web e i social media sono elementi fondanti della nostra socialità, occupando gli spazi e scandendo i ritmi della nostra vita quotidiana. L’evoluzione del digitale, la progressiva normalità della condizione dell’essere sempre in rete, la cultura della connessione che si è nel frattempo costruita nella continuità tra online e offline, hanno dato una spinta importante a quel processo di mutamento della morfologia sociale che già Manuel Castells definiva network society. Un’evoluzione tecnologica all’interno della quale si sono nel frattempo definite trasformazioni comunicative, politiche e sociali che, negli ultimi anni, hanno generato un ecosistema all’interno del quale spicca il ruolo delle piattaforme, in primis le Big five (Amazon, Microsoft, Alphabet/Google, Apple e Facebook), con le loro infrastrutture e i loro modelli economici, che hanno saturato quasi ogni ambito della rete. Sono ciò che ci ha permesso, in piena emergenza Covid, di far fronte alle difficoltà personali, professionali ed educative, di trovare nuovi modi di lavorare e fare impresa, studiare, esprimere preferenze, divertirci, consumare, comunicare. Alle piattaforme abbiamo assegnato e assegniamo continuamente grandi responsabilità e compiti, tesi alla risoluzione di problemi pubblici, com’è stato in particolare negli ultimi mesi, ma si tratta pur sempre di imprese private con proprie strategie e logiche profit che ne orientano la politica economica.
La messa al bando degli account social di Donald Trump si colloca qui, in quelle dinamiche di mutamento proprie di una società in rete, mediatizzata e piattaformizzata che, oggi, fa – o dovrebbe finalmente fare? – i conti con le sue tensioni e contraddizioni, fra le quali spicca il confronto tra diversi sistemi di valori, sottesi alle logiche di interesse e beneficio collettivo, da un lato, e quelle dei profitti e guadagni delle aziende, dall’altro. Nel censurare Trump, i social hanno legittimamente agito come società private che intervengono a seguito di violazioni – ripetute – delle loro policy. Facebook, Instagram e Twitter sono però anche e soprattutto luoghi in cui milioni di persone si informano, studiano, lavorano, si divertono, producono contenuti e interagiscono tra loro, si formano opinioni su eventi e persone, decidono per chi votare.
Facebook, come le altre aziende tecnologiche, per molto tempo non è stata considerata responsabile dell’uso che un utente può fare dei suoi prodotti. Oggi, nella società dell’informazione e della conoscenza, queste aziende producono tecnologie, vendono servizi pubblicitari, moderano contenuti, gestiscono dati e soprattutto utenti, influenzandone le decisioni e i comportamenti. Sempre meno operatori di rete e software o applicazioni che gli utenti usano come vogliono e sempre più attori centrali nelle dinamiche istituzionali, economiche, sociali e culturali, partecipando alla strutturazione, sul piano organizzativo, delle società democratiche: la platform society, appunto. Più che imprese, hanno lo status di istituzioni pubbliche che stanno modellando le pratiche economiche e sociali della contemporaneità ma che non sono necessariamente competenti o sensibili per operare scelte le cui conseguenze, culturali e politiche, sono di per sé esterne alla loro struttura di business. Può davvero una società privata, in posizione dominante e addirittura indispensabile per la nostra quotidianità, decidere in base a propri criteri chi può o non può stare sui social, cosa può o non può portare nel dibattito tra cittadini, in quella sfera pubblica indispensabile per lo svolgersi delle democrazie? Fino a poche settimane fa, questi temi erano scomodati per difendere il diritto di parola di terrapiattisti o di complottisti che non credono all’allunaggio o all’esistenza della Finlandia (ci sono anche loro, sì!). Ora che la questione si è spostata su un livello decisamente superiore e più complesso, per il rango e la caratura degli attori coinvolti, è ancor più urgente discutere di qual è il ruolo, nell’ecosistema globale delle piattaforme, rette da algoritmi e culture aziendali socialmente opache, della società civile, delle piccole e grandi imprese, dei governi locali, che sempre più si confrontano con le piattaforme in aree legali grigie e fortemente ideologizzate.
Se Cambridge Analytica ha rappresentato la fine dell’era dell’innocenza dei social, facendo emergere un bisogno di conoscenza e consapevolezza rispetto al ruolo delle piattaforme nelle nostre società, il caso Trump può essere forse il motore per quella richiesta di attenzione ai temi del ruolo delle piattaforme dell’organizzazione dei valori pubblici delle democrazie occidentali, della trasparenza dei flussi di dati, della responsabilità pubblica di monitoraggio, regolazione e co-regolazione delle piattaforme online, a partire dall’insostituibile e decisivo ruolo che i governi nazionali vorranno assumersi nel negoziare attivamente i valori pubblici per conto dei cittadini.