Una veduta di Castellammare di Stabia
Una questione meridionale ha radici lontane. Riguarda il Mediterraneo: sponda nord e sponda sud.
Il Mediterraneo lungo le cui coste, come ha scritto Pedrag Matveievic, “passava la via della seta, s’incrociavano le vie del sale e delle spezie, degli olii e dei profumi, dell’ambra e degli ornamenti, degli attrezzi e delle armi, della sapienza e della conoscenza, dell’arte e della scienza. Gli empori ellenici erano ad un tempo mercati e ambasciate. Lungo le strade romane si diffondevano il potere e la civiltà. Dal territorio asiatico sono giunti i profeti e le religioni. Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa”.
Allora perché, dopo Atene e Roma e i loro “fasti”, perché si chiedeva il geografo Pierre George, quei Paesi “sono rimasti una terra di arcaismi sia in Europa (in Spagna, nel Mezzogiorno d’Italia, nella parte meridionale della penisola balcanica) sia sulla costa occidentale dell’Asia, sia nel Maghreb?”. Perché negli ultimi 1.500 anni quel centro sociale ed economico si è andato progressivamente e decisamente spostando verso l’Europa continentale?
Verosimilmente il rivolgimento è cominciato quando sono progressivamente modificati i modi di vita e i bisogni che li caratterizzavano. Di conseguenza quelle aree che meglio dotate delle risorse necessarie per soddisfarli e delle capacità di trasformarle hanno preso il sopravvento e cambiato la centralità del Mediterraneo spostandola verso l’Europa continentale.
L’Italia è abbastanza rappresentativa di questi mutamenti. E il sopravvento è stato delle regioni settentrionali, la Padania in modo particolare, più e meglio dotate dalla natura per gestire proficuamente il cambiamento rispetto a quelle meridionali che Giustino Fortunato nel suo “ventennale peregrinare pedestre” aveva descritto come per nulla favorite dalla natura dalle cui caratteristiche erano condannate ad un “incertissimo destino” perché aride, impermeabili, diboscate, fragili.
Sta di fatto che esisteva ed esiste tuttora una “questione meridionale” le cui radici e il cui rivolgimento, sul modello mediterraneo, sono segnati dai resti romani e della Magna Grecia a ricordo di antichi splendori e confrontati con la miseria sociale ed economica del XX secolo. Miseria che non si è mai riuscita a superare malgrado l’impegno dei meridionalisti soprattutto campani, pugliesi, e di quanti hanno sempre considerato che le fortune economiche dell’Italia non potevano prescindere da quelle delle regioni meridionali. E che il Mezzogiorno non poteva continuare a essere una terra dedita alla sola agricoltura, ma andava necessariamente infrastrutturata e industrializzata.
Per rinfrescarci la memoria quando parlo di Meridionalisti pugliesi mi riferisco al gruppo di Vittore Fiore, Mario Dilio e Pasquale Satalino; per i campani il ricordo va ai “gruppi” ruotanti intorno alle due riviste “Nord e Sud” di Francesco Compagna e “Cronache meridionali” di Gaetano Macchiaroli oltre che alla scuola di Portici di Manlio Rossi Doria.
Il forte movimento migratorio che ha demograficamente impoverito il Mezzogiorno, dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la ricostruzione post-bellica ha anche contribuito alla crescita nel triangolo industriale GE-MI-TO (un acronimo che già indica una tendenza…). Vi ha contribuito occupando gli spazi provocati dalla insufficienza quantitativa della manodopera in quelle regioni.
Quell’esodo migratorio che sembrava arrestato all’inizio degli anni Settanta dopo lo “scoppio” della grave crisi internazionale delle fonti di energia, è ripreso da qualche anno. E tanto che ripetutamente la SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno), nei suoi annuali rapporti, mette l’avviso sul realistico rischio di ulteriore forte impoverimento demografico del Mezzogiorno associato all’invecchiamento della popolazione.
Dunque, si ripropone la questione meridionale con le caratteristiche del passato? Non proprio. Perché i meridionali che andavano nelle fabbriche del triangolo industriale e cercavano di stabilirvisi con le famiglie non erano particolarmente graditi dagli indigeni. Soprattutto dai piemontesi che a Torino non mancavano di avvertire nella locazione delle case “non si affitta a meridionali”. Oggi, invece, evidentemente, questo divieto è superato come mi induce a riflettere il licenziamento degli 81operai della Meridbulloni, società del Gruppo Fontana nella sede di Castellammare di Stabia in provincia di Napoli. Già perché quel licenziamento viene accompagnato con la proposta di una via d’uscita dal momento che ai lavoratori di Castellammare viene indicata un’alternativa: quella di trasferirsi nelle sedi di Milano e Torino. Già proprio Torino dove non si affittava e dando quindi per scontato che ora si affitterebbe a meridionali.
Pare per certo che questi meridionali non accetteranno il trasferimento. D’altra parte, se lo facessero, loro malgrado, darebbero un ulteriore contributo all’emigrazione, con buona pace per le chiacchiere sulla ripresa del Mezzogiorno e sul sempre richiamato ricordo del mazziniano “l’Italia sarà quello che il Mezzogiorno sarà”. È una vecchia questione. Meridionale, naturalmente.